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Al supermercato di domenica? Paola ha un’amica commessa e ci racconta il suo NO

Siamo in un supermercato, è domenica e la sfortunata protagonista di questa storia è una commessa. Paola ha un’amica che fa questo lavoro ed è stata testimone di questo racconto. Paola, di lì in avanti, non ha più fatto la spesa la domenica e mi racconta che quel giorno ha toccato con mano la situazione in cui si trovano molte commesse, scrivendo di getto l’accaduto. Vi lascio alle sue parole…

Era una domenica di giugno quando mi arrivò un whatsupp dai miei amici, che stavano organizzando un pic-nic all’ultimo momento. Mi ero svegliata da circa cinque minuti, ma i segnali di una giornata fantastica c’erano tutti: cielo terso, sole radioso, la prospettiva di passare del tempo con degli amici e per giunta per un pic-nic, io li adoro i pic-nic!
Per non parlare delle urla di gioia quando comunicai l’idea ai bambini: cominciarono a saltellare come impazziti da una stanza all’altra, mentre mio marito si gustava quegli ultimi minuti di semi incoscienza in posizione orizzontale
Non ero ancora scesa in cucina che già stavo scandagliando a mente gli armadietti ed il frigorifero, pensando a cosa mettere nel cestello insieme alla tovaglia a quadretti, la mia preferita! Sì perché quella tovaglia a piccoli scacchi rossi e bianchi era l’accessorio perfetto per una giornata perfetta, la ciliegina sulla torta!
Poi un attimo di panico… mancava il pane! Avevo salame, prosciutto e formaggi, persino vino e coca-cola, ma il pane è l’elemento principale per un pic-nic che si rispetti. Forse questo avrebbe potuto creare un disguido anni addietro, ma oggi no di certo. Con un’alzata di spalle allontanai il disappunto, avrei avuto soltanto la scocciatura di prendere la macchina per arrivare al primo supermercato aperto per strada.
Oggi che sia lunedì, giovedì o domenica poco importa: tutto aperto, sempre e comunque, persino a Natale e Pasqua! In effetti una vera e propria comodità, niente più sensi di colpa se alla spesa del sabato ci si è dimenticati latte, sugo o biscotti. Se la domenica pomeriggio senti che per cena hai voglia di burrata o di pasta alla salsa di noci, il fatto di non averne in frigo non rappresenta più un limite.
Detto fatto ero in macchina con i finestrini abbassati, musica a palla e morale alle stelle! Non trascorsero nemmeno cinque minuti che già mi trovavo nel parcheggio di uno dei tanti centri commerciali che negli ultimi vent’anni sono spuntati come funghi in tutti i nostri paesi.
Mentre uscivo dalla macchina e premevo sulla chiave il pulsante della chiusura centralizzata, mi chiedevo come avesse fatto mia mamma a sfamarci tutti e tre, i miei fratelli ed io, rifornendosi quasi esclusivamente dall’alimentari sotto casa. E che di certo la domenica era sempre chiuso!
Eppure la domenica era il giorno che in famiglia si mangiava meglio, con più calma, più gusto, tutti assieme. Domenica era il giorno della Messa, il giorno del Signore, il giorno dei piatti speciali, dei nonni ospiti a pranzo. Domenica e le gite fuori-porta, il rombo delle moto sulla strada, lo scrosciare della pioggia e noi tutti sul divano, la musica della radio del vicino di casa, i film d’avventura, lo studio, il tè gli amici e i biscotti, il dolce far niente.
Le luci della macchina lampeggiarono ed entrai nel supermercato.
Subito mi sollevai nel vedere che la gente non era poi molta. Niente musichetta di sottofondo, solo un sommesso chiacchiericcio e il rumore metallico dei carrelli. Mi misi subito in coda per il pane. Tutte donne quelle davanti a me, quattro o cinque; due in particolar modo attirarono la mia attenzione. I loro capelli erano lucidi e boccoluti, come quelli che si hanno appena uscite dalla parrucchiera. Ma ci avranno dormito “sopra”? Questo è stato il mio primo pensiero, mentre con la coda dell’occhio guardavo i miei: gonfi e crespi, e che mi scendevano sulle spalle come quelli di una cantante anni ’80 in declino. Poi mi soffermai sulle loro unghie “al gel”, così terribilmente fashion. Come si possono non notare certi dettagli: le borse griffate, le scarpe abbinate e quell’invidiabile abbronzatura già così evidente!
Forse il loro bronzeo incarnato risaltava così prepotentemente perché in contrasto con il volto pallido e il camice bianco della commessa. La guardai: non era esattamente il volto felice della fornaia che uno custodisce nel suo immaginario, un po’ in carne, sorridente e con le gote rosate, aveva infatti un volto ovale, affilato e pallido.
Probabilmente fu la mia euforia a rendermi temporaneamente sorda, cieca e superficiale davanti a quello che stava accadendo, anche se non mi ci volle molto per venirne totalmente coinvolta. Incominciai a distinguere le parole e poi le frasi che rimbalzavano da una parte all’altra del bancone: quella in atto non era un conversazione del tipo “cosa desidera signora, due rosette e tre tagliati grazie, ecco a lei buona domenica”.
Ne ebbi la certezza quando sugli occhi della giovane al di là del banco scese un velo di lacrime.
“Lo dica chiaramente che non ha voglia di lavorare”, affermò una delle due donne, “e certo, non ci può essere altra spiegazione” incalzò l’altra, “non so quante ragazze farebbero carte false per avere il suo posto di lavoro, e lei lo disprezza!”. “Voi non capite…” rispose la commessa, “non è che non ho voglia di lavorare, ho solo detto che un conto è il lavoro, un altro lo sfruttamento”, poi prese respiro, era visibilmente scossa e agitata “in questo modo non ho più una vita mia, non vedo più i miei figli…” “Questa poi…” la interruppe la boccoluta, “ma che coraggio che hai… mia figlia si alza tutte le mattine alle sei e mezza per andare a Milano in ufficio, e di certo non si lamenta quanto te!” “Ma mi può dire ora dov’è sua figlia?” chiese la giovane commessa. “E questo cosa c’entra, tutti si lamentano di non avere un lavoro e tu che ce l’hai non sei felice!” “Giusto!” disse l’altra, “Dacci il nostro pane e facciamola finita”.
Il tutto capii, fu innescato da una affermazione di una delle due signore che aspettando di essere servita, si rivolse alla commessa per sottolinearle quanto fosse fortunata a lavorare anche la domenica, nonostante la crisi lavorativa in atto. La commessa così, replicò cercando di far capire alle clienti, che non interpretava una fortuna non poter rifiutare il turno domenicale, non aver altra alternativa se non quella di obbedire. La bloccava la paura di perdere quel posto di lavoro che le serviva, ma la rendeva schiava di un sistema che in quel momento mi apparve per la prima volta del tutto fallimentare. Stavo ferma ad ascoltare le une e l’altra, e il disperato tentativo di quest’ultima di far capire i suoi sentimenti davanti al divieto di trascorrere i giorni di festa coi suoi piccoli bambini, al divieto per un pic-nic improvvisato, al divieto alle coccole sul divano il pomeriggio, al divieto di sentirsi dire a pranzo “che buono mamma!”, al divieto di una passeggiata sul lago, a quello di una camminata nel parco.
Così la osservavo sbattere i panini nel sacchetto con rabbia e frustrazione, e purtroppo mi sentii anch’io responsabile del dramma che stava vivendo.
Dopo poco feci sentire anch’io la mia voce, non potevo più far finta di nulla e assistere a quella lapidazione. Dissi che secondo me, il punto non era la non voglia di lavorare della commessa, quanto semmai la sua voglia di vivere. Me la presi inizialmente con il supermercato, poi con tutti gli altri punti vendita che gli facevano concorrenza spietata; ma forse il problema era un altro, forse lo Stato e le sue leggi, forse la nostra società del “lo voglio ora”, forse di tutti noi lì in fila per qualcosa che così indispensabile non era. Ovviamente le due signore rimasero del loro puto di vista, anzi alzarono i toni e invitarono caldamente la commessa a licenziarsi.
Il mio tentativo di spiegare loro che tutti in fin dei conti hanno diritto, oltre che a un lavoro, ad una vita per la quale si lavora, cadde come un piccolo sassolino nel vuoto delle loro teste. Spero soltanto ne abbiano sentito l’eco una volta rientrate nelle loro dimore.
Presi i miei panini, li riposi nel cestino, poi guardai la ragazza negli occhi e le dissi semplicemente “Ti capisco, sono con te”, “Grazie” fu la sua risposta. Delle altre donne presenti nessuna disse nulla. Allontanandomi un signore che si stava avvicinando guardò la commessa e poi ridacchiando disse “Cos’ha? Le sue cose?”. Sinceramente non ho avuto voglia di rispondergli.
Feci il mio pic-nic, ma per tutto il giorno pensai a lei. Vedevo la luce calda delle lampade che scendevano dallo scuro soffitto quasi a sfiorare panini e pizzette, la sua figura immobile dietro al bancone, il volto rigido, pallido, le lacrime trattenute e lo sguardo fermo perso tra gli scaffali che le stavano davanti.
Paola Ghisleni

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Un commento

  1. qui si torna indietro di cento anni
    complimenti ….

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