Stamane mi sono svegliato di buon’ora: sono appena le 7.00 e sono già alla stazione Termini, destinazione Bologna. Mentre sorseggio il mio caffè, la voce sempre uguale diffusa dagli altoparlanti di ogni stazione mi informa che Fiumicino va a fuoco, che a Fiumicino va a fuoco il lavoro:
Si avvisano i signori viaggiatori che i treni da e per Fiumicino sono soppressi a causa un incendio nei pressi della stazione Fiumicino Aeroporto.
Sono in attesa dei miei compagni di viaggio: i lavoratori MediaWorld. Motivo del viaggio? Una manifestazione contro gli oltre novecento licenziamenti dichiarati dalla multinazionale tedesca. Oltre 900 famiglie, tanti sogni, tanti mutui accesi, tanta voglia di certezze che vanno in fumo; proprio come il terminal 3 dell’aeroporto Leonardo da Vinci.
La mano corre allo smartphone, l’ANSA non riporta ancora la notizia, la voce automatica della stazione stavolta è stata più veloce. Intanto arriva Michela, arrivano tutti gli altri alla spicciolata e aumenta la mia preoccupazione. Fiumicino brucia e i lavoratori Gucci, iscritti all’Unione Sindacale di Base (ma ancor prima miei amici) lavorano proprio al terminal 3.
Di nuovo chiedo soccorso allo smartphone, scorro la rubrica, “Stefano Gucci”, “chiama”; Stefano, per fortuna, mi risponde e mi tranquillizza, la sua azienda ha adottato tutte le procedure necessarie a mettere in sicurezza il personale, i miei amici sono al sicuro; ma è solo l’inizio di un incubo.
Sono passati alcuni giorni da quel maledetto 7 maggio. I miei colleghi di Fiumicino, assorbiti completamente dalla vertenza, mi hanno narrato la cronaca apocalittica di quella giornata surreale: i passeggeri in attesa per ore tra la fuliggine e i lavoratori impegnati oltre le loro stesse forze.
L’incendio è stato domato dopo 12 ore, il tempo necessario per distruggere una vasta area comprendente negozi, sale passeggeri e bar. Centinaia di posti di lavoro andati in fumo, tra le fiamme di un disastro che si poteva evitare. Tanti lavoratori impiegati nelle attività che ora rischiano la chiusura e tanti giovani e meno giovani che, con la stagione estiva alle porte, sognavano l’assunzione precaria.
Il fuoco ha bruciato il lavoro. Ma il fuoco è il frutto avvelenato della carenza dei controlli sulla salute e la sicurezza, primo dei costi aziendali ad essere “limato” all’alba della crisi. Si, perché uomini e donne che lavorano non sono considerati altro che un mezzo di produzione, al pari di un aeroplano, di uno scaffale, di una merce. E se bruciano, muoiono, si usurano, che importa? Tanto c’è l’assicurazione che paga.
Questo è ciò che rimane del diritto al lavoro. Ma il lavoro dovrebbe avere come funzione, nella società e negli intenti costituzionali, quella di produrre ricchezza materiale e morale per la persona. Non dovrebbe essere merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, un mero fattore di produzione; ma dovrebbe rappresentare parte della realizzazione dell’individuo (e quindi della società tutta) e delle sue aspirazioni materiali e spirituali. E’ dovere di ognuno di noi lottare per riconsegnare al lavoro, ma prima ancora a noi stessi, quella dignità sempre più violentata.
A fiumicino brucia il lavoro, sì, ma a Fiumicino sono andate a fuoco anche la salute e la sicurezza: per intervenire nelle zone colpite, infatti, sono stati impegnati lavoratori a cui non sono state fornite la minime protezioni necessarie per far fronte ad un evento tanto grave, esponendo gli stessi alle polveri sottili senza conoscerne la natura.
Tante donne e tanti uomini, costretti a prestare servizio al terninal T3, sono dovuti ricorrere alle cure mediche per i più disparati sintomi: vomito, nausea, sudorazione, difficoltà respiratorie, bruciore di gola e occhi, sanguinamento dal naso. Ambulanze che andavano e venivano, scene che mi hanno fatto tornare alla mente quella che viene definita la maledizione dell’11 settembre: migliaia di soccorritori (poliziotti, vigili del fuoco, netturbini, dipendenti comunali e volontari), che hanno lavorato a Ground Zero dopo il crollo delle Torri Gemelle e si sono ammalati di cancro.
Certo, in questo caso i numeri sono diversi ed in cuor mio spero lo sia anche l’epilogo. Resto in fiduciosa attesa delle indagini della magistratura, ma un fatto è certo: come per l’ILVA di Taranto, siamo ancora di fronte all’eterno dilemma, salute o lavoro. Perché entrambe le cose non le meritiamo, e poi costano troppo. E se avveleniamo una città e i suoi cittadini che importa? E’ il prezzo da pagare per il loro progresso.
Ieri parlavo di tutto questo con Nico Forconi, che mi ha dato l’idea di buttare giù due righe su quella maledetta giornata di ordinaria follia. Nel ringraziarlo per i suoi preziosi consigli, lascio a lui la chiusura:
Nelle vicinanze dei terreni di proprietà di AdR, si trova l’azienda Caramadre, gestita da un produttore agricolo che crede nell’utilizzo di prodotti biologici, che non utilizza concimi e che si preoccupa di togliere a mano le erbe e gli animali che possono danneggiare le sue coltivazioni… insomma, uno che non ha capito un cazzo di come funzioni l’economia!!