Mancano pochi giorni al 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e gli avvenimenti di questi ultimi giorni che hanno come scenario la Coop mi fanno riflettere, mi fanno riflettere a lungo.
Penso al licenziamento di Sara Catola, delegata sindacale presso l’Ipercoop di Livorno. Mamma single di 3 bambini e licenziata dall’azienda dopo 12 anni di lavoro in Coop. Sara non aveva mai ricevuto neanche una lettera di contestazione disciplinare.
Penso alle cassiere dell’Ipercoop di Roma, quasi tutte part-time con salari da fame, che non riescono più a gestire la quotidianità; che non hanno più tempi di vita e non possono programmare neanche una visita medica. Donne atterrite dalla paura di rivendicare il sacrosanto diritto di vivere una vita dignitosa e che un paio di giorni fa si sono ribellate ed hanno denunciato all’ispettorato del lavoro la loro difficile condizione.
Perché la violenza sulle donne non è soltanto quella brutta cosa per la quale si muore o si viene stuprate; è anche quella violenza silente che origina dagli squilibri nei rapporti di genere, che si alimenta nei rapporti di potere presenti all’interno delle relazioni, siano esse familiari o di lavoro. Quella violenza che parla della volontà di controllo, dominio, possesso degli uomini sulle donne.
Penso, penso a lungo, ma non trovo le parole, il linguaggio giusto, il punto di vita di una donna. Allora i ricordi corrono al 25 novembre di tre anni fa, proprio alla denuncia di un manipolo di donne della Coop, determinate a portare a galla la realtà ben diversa dall’ambiente “accattivante e simpatico” descritto negli spot della “Lucianina” nazional-popolare, testimonial della Coop di allora.
Quella lettera aperta inviata a Luciana Littizzetto che con poche e semplici parole scritte di pancia da quelle donne, determinate e “terribilmente incazzate”, è riuscita nell’intento di evidenziare tutte le contraddizioni di uno degli spot pubblicitari più azzeccati degli ultimi anni. Che ha scoperchiato la condizione femminile nei luoghi di lavoro del commercio. Già, perché quanto descritto non accade soltanto alla Coop, ma è il quotidiano di molte lavoratrici di tutte le catene commerciali, alle prese con autoritarismo ed omertà.
Lascio alla deliziosa lettera la mia denuncia; la mia rabbia; la mia voglia di cambiare questo stato di cose, almeno un po’…
Cara Luciana,
lo sai cosa si nasconde dietro il sorriso di una cassiera che ti chiede di quante buste hai bisogno? Una busta paga che non arriva a 700 euro mensili dopo aver lavorato sei giorni su sette comprese tutte le domeniche del mese. Le nostre famiglie fanno una grande fatica a tirare avanti e in questi tempi di crisi noi ci siamo abituate ad accontentarci anche di questi pochi soldi che portiamo a casa. Abbiamo un’alternativa secondo te?
Nei tuoi spot spiritosi descrivi la Coop come un mondo accattivante e un ambiente simpatico dove noi, quelle che la mandano avanti, non ci siamo mai. Sembra tutto così attrattivo e sereno che parlarti della nostra sofferenza quotidiana rischia di sporcare quella bella fotografia che tu racconti tutti i giorni.
Ma in questa storia noi ci siamo, eccome se ci siamo, e non siamo contente. Si guadagna poco e si lavora tanto. Ma non finisce qui. Noi donne siamo la grande maggioranza di chi lavora in Coop, siamo circa l’80%. Prova a chiedere quante sono le dirigenti donna dell’azienda e capirai qual è la nostra condizione.
A comandare sono tutti uomini e non vige certo lo spirito cooperativo. Ti facciamo un esempio: per andare in bagno bisogna chiedere il permesso e siccome il personale è sempre poco possiamo anche aspettare ore prima di poter andare.
Il lavoro precario è una condizione molto diffusa alla Coop e può capitare di essere mandate a casa anche dopo 10 anni di attività più o meno ininterrotta. Viviamo in condizioni di quotidiana ricattabilità, sempre con la paura di perdere il posto e perciò sempre in condizioni di dover accettare tutte le decisioni che continuamente vengono prese sulla nostra pelle.
Prendi il caso dei turni: te li possono cambiare anche all’ultimo momento con una semplice telefonata e tu devi inghiottire. E chi se ne frega se la famiglia va a rotoli, gli affetti passano all’ultimo posto e i figli non riesci più a gestirli.
Denunciare, protestare o anche solo discutere decisioni che ti riguardano non è affatto facile nel nostro ambiente. Ci è capitato di essere costrette a subire in silenzio finanche le molestie da parte dei capi dell’altro sesso per salvare il posto o non veder peggiorare la nostra situazione.
Tutte queste cose tu probabilmente non le sai, come non le sanno le migliaia di clienti dei negozi Coop in tutta Italia. Non te le hanno fatte vedere né te le hanno raccontate. Ed anche a noi ci impediscono di parlarne con il ricatto che se colpiamo l’immagine della Coop rompiamo il rapporto di fiducia che ci lega per contratto e possiamo essere licenziate.
Ma noi non vogliamo colpire il marchio e l’immagine della Coop, vogliamo solo uscire dall’invisibilità e ricordare a te e a tutti che ci siamo anche noi.
Noi siamo la Coop, e questo non è uno spot. Siamo donne lavoratrici e madri che facciamo la Coop tutti i giorni. Siamo sorridenti alla cassa ma anche terribilmente incazzate.
Abbiamo paura ma sappiamo che mettendoci insieme possiamo essere più forti e per questo ci siamo organizzate. La Coop è il nostro posto di lavoro, non può essere la nostra prigione.
Crediamo nella libertà e nella dignità delle persone. Cara Luciana ci auguriamo che queste parole ti raggiungano e ti facciano pensare.
Ci piacerebbe incontrarti e proporti un altro spot in difesa delle donne e per la dignità del lavoro.
Con simpatia, un gruppo di lavoratrici Coop