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Commessa prigioniera del supermercato: “non posso curare mio figlio”

Una domenica pomeriggio di settembre, una domenica come tante. Il cellulare mi segnala una notifica di Facebook: è Vanessa (nome di fantasia), commessa di una delle tante catene di supermercati di questo schifo di paese. Un cazzotto dritto nello stomaco, un’altra storia di quelle che non vorrei più ascoltare. Un altro motivo per continuare a lottare.

Vanessa ha 31 anni e una splendida famiglia, “un marito fantastico e due figli bellissimi”. La vita le scorre felice: il matrimonio, la prima gravidanza, poi la seconda. Fino a quel maledetto incidente d’auto.  Un bruttissimo incidente stradale nel quale il suo secondo figlio, che allora aveva appena 2 mesi, è rimasto gravemente ferito. “Il bambino ha subito un’operazione e l’asportazione di parte del suo giovane cervello. Un’emiparesi che richiede cure costanti per poter supportare quell’handicap maledetto”.

“Lavoro in un supermercato e vivo moltissime difficoltà nel conciliare i miei problemi familiari con quelli di un’azienda che mi chiede sempre di più.”  Vanessa mi racconta che le viene chiesto sempre di lavorare dopo la sua timbratura, senza percepire neanche un euro in più. Turni massacranti comprese domeniche e festivi. Mi racconta che lì vige la legge del più forte e il più forte se ne strafrega del suo bambino, delle sue esigenze, della sua stanchezza e delle sue giuste preoccupazioni. Come fosse uno scaffale, una cassa, una bilancia senz’anima. Perché in quei luoghi di lavoro la persona non esiste. Esiste il conto economico, l’immagine da dare alla “gentile clientela”. Esistono i banchi da rifornire e le file da smaltire. E se la vita ti riserva una brutta sorpresa non importa: “the show must go on”.

Vanessa prosegue il suo racconto e la mia rabbia continua a montare: “Mio figlio, a causa del suo stato, va curato e lavato ogni sera. E mio marito è sempre solo a farlo. E poi c’è l’altro che ha bisogno delle sue giuste attenzioni. Io non arrivo prima delle 22.00 e trovo i bambini che dormono e mio marito che a mala pena riesce a farmi compagnia per la cena, per poi crollare stanco morto”. Insomma, seguire i figli, specialmente il piccolo che frequenta un istituto riabilitativo per via dell’incidente e per i danni riportati, è sempre più difficile. Vanessa mi racconta di non riuscire mai a far coincidere il suo lavoro con le terapie del figlio. Mi racconta che qualcuna la deve saltare perché al lavoro non le concedono di fruire della Legge 104 che le è stata riconosciuta o di un giorno di permesso personale.

Poi mi racconta della sua “maggiore pena”. Tra poco inizierà la scuola che i suoi bambini frequenteranno a tempo pieno. Mi racconta quanto le faccia male il pensiero di lasciare i suoi figli durante i tanti turni serali. Quanto le faccia male non poter dare una mano al marito che resta solo con loro e fatica a seguirli entrambi.

E allora Vanessa chiede a suo datore di lavoro di poter fare qualche mattina in più, per sollevare suo marito e per poter seguire i propri figli. Per potersi coricare, qualche volta, assieme ai suoi bambini. Bene, la risposta è stata un secco no. “Mi hanno detto che gli orari devono assecondare l’esigenza del negozio. E quindi anche quest’anno non potrò seguire mio figlio nelle terapie e neanche dopo la scuola. E dovrò trascurare anche l’altro”.

Qui si va oltre il problema sindacale. Siamo in presenza di un’atrocità. Di un abominio che lede la dignità di un’intera famiglia. Che lede il diritto alla cura e che ci consegna luoghi di lavoro sempre più violenti e noncuranti delle persone. La storia di Vanessa è la storia di tanti, troppi lavoratori. E ci riguarda tutti, nessuno escluso. Perché in questa storia ci sono sì i carnefici, ma ci sono anche i complici e quelli che si girano dalla parte opposta per non vedere, per non rischiare.

Questa non è la mia società. Questa non è affatto una società civile. E’ un gran carrozzone dove tutti sono indotti a confliggere con tutti, a vantaggio di pochi, pochissimi. E allora è necessario continuare a lottare per un mondo migliore, tutti assieme.

About Francesco Iacovone

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Un commento

  1. mi piacerebbe sapere il nome di questa catena giusto x non andarci piu

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