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Dead Mall walking: la fine dei centri commerciali

Se l’archeologia industriale fosse una scienza, Detroit ne sarebbe, allora, la sua prova inconfutabile. Uno scenario surreale, un numero infinito di edifici abbandonati. Vecchie fabbriche, incustodite da decenni, che hanno assunto le sembianze di giganteschi relitti, corrosi dal tempo e dalle intemperie. Immobili distrutti, vetri in frantumi sparsi ovunque, macchinari ricoperti dal ghiaccio e dalla neve. Un deserto abitato soltanto da cani randagi, tossicodipendenti, senza casa e altri soggetti ai margini della società.

Detroit: la città fantasma. Uno degli esempi più eclatanti dell’altra America, quella che non viene mai mostrata. La decadenza della città che diede i natali alla Cadillac, la città nella quale Henry Ford inaugurò gli stabilimenti dai quali, nel 1908, uscì il primo esemplare di Modello T, la prima vettura della storia prodotta attraverso la catena di montaggio, la città della General Motors e della Chrysler.

Detroit non racconta solo del novecento, ma testimonia anche i mutamenti dell’oggi e ciò che ragionevolmente ci riserva futuro. L’epilogo della sua storia ci dice quanto disoccupazione e povertà siano conseguenza di quei dettami economici che hanno impedito che conquiste e miglioramenti tecnologici fossero messi al servizio della collettività. Ci mostra che le fabbriche sono vuote non perché il lavoro non esiste più, ma perché la produzione è stata spostata altrove, in luoghi dove il costo del lavoro è più basso e la lotta per il riconoscimento dei diritti sociali è oggi più debole.

Ma cosa c’entra tutto ciò con un centro commerciale?

Spesso le vecchie fabbriche sono state sostituite da quelle che ho definito le “nuove fabbriche metropolitane”. Intere aree industriali sono state riconvertite in enormi “Business Park”, il profitto ha delocalizzato la produzione nei paesi poveri del mondo e si è spostato sulla movimentazione e la vendita delle merci, gli operai del secolo scorso sono sostituiti da una nuova fattispecie di “operai”, quelli dei centri commerciali.

Un esempio emblematico nel nostro paese: l’ex Alfa Romeo di Arese. All’interno di un’area che ha vissuto pagine leggendarie della nostra storia industriale e del movimento operaio, sta arrivando a compimento quella che si candida ad essere tra le più grandi strutture commerciali del nord Italia.

Ma gli Stati Uniti, lo sappiamo, ci precedono di qualche anno e, come per le vecchie fabbriche di automobili di Detroit, stanno assistendo al crollo del mito dei tempi dello shopping. Tanto che a queste storie di decadenza è dedicato un sito: Deadmalls.com, che le documenta Stato per Stato. Luoghi spettrali, vuoti, abbandonati, che odorano di erba secca e di polvere. Luoghi abitati anch’essi, come le vecchie fabbriche di automobili di Detroit, soltanto da cani randagi, tossicodipendenti, senza casa e altri soggetti ai margini della società.

Secondo Green Street Advisors, che segue il settore commerciale, dal 2010 più di due dozzine di malls sono stati chiusi, e altri 60 sono sull’orlo del baratro; ma necrologi prematuri per gli shopping center erano stati pubblicati fin dai primi anni ’90. La realtà di oggi riflette le tendenze dell’economia americana. Con la disuguaglianza del reddito che continua ad allargarsi, i centri commerciali di fascia alta sono fiorenti, ma le catene commerciali al dettaglio come Sears, Kmart e JC Penney vacillano, con la conseguenza che i malls frequentati dalla classe media e da quella operaia vivono una profonda crisi.

Mentre i ricchi vanno a spendere nelle boutique ed i poveri nei discount, i centri commerciali chiudono; e qualcuno teorizza la loro estinzione. La stessa estinzione che sta rischiando la middle class americana, alle prese con la stagnazione salariale e la conseguente diminuzione del reddito reale. Non è difficile ipotizzare che la medesima dinamica si trasferisca a breve nel nostro paese, che per ora resiste alla crisi dei consumi aggredendo i diritti ed il salario dei lavoratori che si guadagnano da vivere in queste enormi “piazze” precarie.

Nonostante questo contesto evidentemente sfavorevole, i centri commerciali continuano a proliferare. Forse perché vi si nasconde spesso l’attività speculativa di grandi gruppi finanziari e la presunta infiltrazione del potere mafioso?

In Italia la Corte dei Conti ha pubblicato una relazione dedicata alla criminalità organizzata che non ha avuto la dovuta rilevanza sui giornali e alla televisione. Tale relazione rileva che le attività economiche in cui le mafie investono con maggior frequenza sono quelle “edilizie, immobiliari, commerciali e la grande distribuzione”.

Il commercio, in particolare il franchising che coinvolge le grandi marche, consente alle organizzazioni criminali di procedere all’apertura di esercizi commerciali, spesso a nome di soggetti terzi compiacenti non immediatamente riconducibili ad esponenti della criminalità. In questo modo, le mafie riescono a controllare l’intero processo che va dalla costruzione delle strutture al loro sfruttamento con il trasporto e la vendita dei beni, permettendo il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite.

Insomma, il genio del centro commerciale è uscito dalla lampada e non è sua intenzione tornare indietro, anche se appare evidente che i templi dello shopping, come un condannato a morte, stanno percorrendo il loro “ultimo miglio”.

About Francesco Iacovone

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Un commento

  1. Sono certa che un articolo scritto così non si veda ogni giorno.

    imbianchino milano

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