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I consumi? Non ripartono perché i salari sono bassi e il lavoro è “povero”

È inutile tenere aperti gli esercizi commerciali anche la domenica e tutte le festività. I consumi non ripartono perché i salari sono bassi e il lavoro è “povero”.

Cominciamo con ironia, che purtroppo non è proprio ironia ma dati di realtà:

Se il nostro netto mensile da lavoratore dipendente, single, nessuno figlio e coniuge a carico, con la “fortuna” di avere 14 mensilità l’anno, è di circa 1200/1300 euro (a seconda della regione dove risediamo per calcolo imposte e addizionale regionale) , siamo “fortunatissimi” perché perfettamente in linea con la retribuzione annua media di circa 24.500 euro (indicata nel Rapporto del Mercato del lavoro 2018 – verso una lettura integrata – lavoro congiunto del gruppo di lavoro tecnico e del Comitato di indirizzo dell’Accordo fra Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal). Anzi dovremmo ritenerci quasi dei pascià perché, dati alla mano – e stavolta come punto di riferimento consideriamo il MEF Dipartimento delle finanze – il nostro reddito è superiore ad oltre il 70% degli italiani e soltanto poco più del 29% guadagna più di noi. Come è possibile?

Partiamo da una considerazione di base “LE MEDIE STATISTICHE“ ci dicono ben poco se non addirittura, come nel nostro caso, finiscono per coprire differenze sostanziali e dati reali che invece sarebbe necessario mettere in luce, discutere e discutere ancora.

Banalizziamo, facciamo un esempio concreto e rendiamo da subito chiaro il concetto: se io Paolo e Antonio abbiamo un reddito medio di 50.000 euro, si potrebbe dire che siamo mediamente ricchi eppure io guadagno 20.00 euro l’anno, Paolo, sebbene si dia molto da fare, si arrabatta e guadagna meno di me con circa 15.000 euro e Antonio, il vero leone della situazione, guadagna 115.000 euro l’anno. Insieme facciamo 150.000 euro che diviso tre, quanti siamo, fanno 50.000 euro in media.

Riportando i dati su grandi numeri è proprio quello che succede quando ci forniscono medie sul reddito degli italiani: proviamo a riportare una tabella riassuntiva elaborata sui dati del MEF per le dichiarazioni dei redditi dal 2013 al 2017.


Fonte: Elaborazioni sui dati ufficiali delle dichiarazioni Irpef fornite dal MEF – Dipartimento delle Finanze

Dunque quasi il 75% degli italiani ha un reddito, o da lavoro dipendente, o autonomo, o da pensione, di importo inferiore ai 26.000 euro l’anno e solo il reddito del poco più del restante 25% guadagna di più e devia la media verso valori più alti ma di certo non reali per la maggior parte degli italiani.

Che la situazione del mercato del lavoro sia critica a livelli ormai intollerabili lo rileva anche la presentazione annuale del Presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, dal titolo “Disuguaglianze e iniquità sociali, sfide per il futuro” tenutosi lo scorso Mercoledì 10 Luglio 2019 presso la Sala Regina di Palazzo Montecitorio.

Tra i vari dati che abbiamo già commentato negli articoli precedenti (aumento della povertà assoluta e relativa, frammentazione del lavoro, non ritorno ai livelli occupazionali pre-crisi per unità di lavoro equivalente, ecc.) ne sono stati presentati alcuni che, senza mezzi termini, possiamo dire che ci indignano. Il motivo è presto detto : LA CADUTA DELLA QUOTA DEI SALARI E’ UN PROBLEMA DI VECCHISIMA DATA. E’ stato infatti considerato un periodo lunghissimo che parte dagli anni ’70 ad oggi per cui, la solita storia della crisi del 2008, che è stato si un fenomeno avvenuto nel contesto più ampio della globalizzazione, ha di fatto inciso su un processo strutturale e antico.

La tabella presentata nel XVIII Rapporto annuale 2019 dell’INPS riporta la quota salari “corretta” (cioè depurandola da vari elementi discorsivi legati ai cambiamenti ad esempio, nel peso del lavoro autonomo sulla occupazione complessiva, , l’ammontare delle imposte indirette ecc…).


Fonte: XVIII Rapporto annuale INPS 2019

Ora noi potremmo dirci, studiano i Rapporti dell’INPS, dell’ISTAT, del Ministero del lavoro, e quanti altri vogliamo consultare, che riusciamo in qualche modo a trovare le cause, anzi un ventaglio di cause, dal taglio della scala mobile, la riduzione dell’indicizzazione delle retribuzioni all’inflazione, la caduta del settore manifatturiero, l’utilizzo massivo delle tecnologie e dell’automazione, la compressione della quota lavoro dovuto al ricorso all’outsourcing e all’offshoring, il ruolo della finanza ecc. Resta il fatto che riusciamo soltanto a collezionare eventi negativi e compressivi in una società sempre più fragile ed una coesione sociale sempre più in crisi. Siamo e saremo sempre più poveri dei nostri padri, il nostro potere d’acquisto è sempre più basso e segni di ripresa anche in termini di retribuzione non se ne vedono. La crescita delle retribuzione è così modesta che restano ancora inferiore del -2,1% rispetto al 2008


(a) Le retribuzioni lorde sono state deflazione con il deflatore della spesa delle famiglie residenti. Fonte: Istat, Conti nazionali.

E se ciò non bastasse a ciò si aggiunge anche la beffa. Lo stesso XVIII Rapporto annuale 2019 dell’INPS mostra come il reddito totale dell’economia italiana, sempre nel periodo 1970-2018, sia cresciuto per:

  • il 63% proprio grazie ai redditi di lavoro dei lavoratori meno ricchi
  • Il 27% grazie ai lavoratori agli altri lavoratori più ricchi
  • Il 10% grazie ai lavoratori ricchissimi

Di contro la crescita dei redditi dei lavoratori è stata

  • Del 65% per i lavoratori meno ricchi
  • Del 99% per i lavoratori più ricchi
  • Del 298% per i lavoratori ricchissimi

E dobbiamo sempre aggiungere che tale percentuale di crescita va sempre considerata in maniera relativa (quota salari corretta) e dunque in considerazione dell’indice del costo della vita, aumento delle imposte dirette e indirette, etc. Ne consegue che chi davvero ha risentito della reale crescita è quasi interamente la classe di lavoratori che detiene il Top delle quote di retribuzione.


Fonte: Rapporto annuale 2019 INPS

Dobbiamo allora considerare che in tale direzione di consapevolezza per un’emergenza sempre più largamente sentita, e per una coesione sociale sempre più a rischio, vada ascritto anche il contenuto dell’Audizione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica Prof. Gian Carlo Blangiardo presso XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) – Camera dei Deputati lo scorso 17 giugno 2019. In essa infatti si offrono alcuni contributi conoscitivi utili per il Governo affinché assuma iniziative normative in materia di retribuzione minima oraria. Scopo ultimo è quello di offrire una tutela minimale per quelle categorie di lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9€ e rafforzare la “salvaguardia della dignità del lavoro”. L’Istat fornisce poi i dati in suo possesso indicando che i lavoratori per i quali l’innalzamento della retribuzione oraria minima a €9 comporterebbe un incremento della retribuzione annuale sono 2,9 milioni ovvero circa il 21% del totale. Per questi lavoratori l’incremento medio annuale sarebbe pari a circa € 1.073 pro capite. L’aumento percentuale più significativo coinvolgerebbe i lavoratori occupati nelle altre attività di servizi (+8,8%), i giovani sotto i 29 anni (+3,2%) e gli apprendisti (+10%).

No vi è nessun dubbio che delle misure vadano prese in una tale situazione eppure, per quanto finora detto, iniziative del genere appaiono più palliativi, piccoli rattoppi per un sistema che appare stagnante e distorsivo a livello strutturale.

Se dai confronti europei (rapporto OCSE innanzitutto), che non riportiamo per l’ennesima volta, siamo sempre tra i paesi più “indietro”, “meno competitivi” ma anche, dalla parte dei lavoratori, siamo tra quelli che lavorano più ore e guadagnano meno, non c’è forse pi di un effetto distorsivo nel mercato del lavoro?

In altre parole lavoriamo tanto come ore pro capite, guadagniamo meno, e le nostre aziende sono tra le meno produttive e competitive. Non sono forse i lavoratori a doversi adeguare, comprendere, capire. La loro parte, “lavorare”, la fanno!

Siamo in un’economia che non solo non decolla ma striscia clamorosamente nella melma rischiando sempre a più riprese di affogarci dentro. Sono le imprese e le aziende che dovrebbero “domandarsi”, uscire da quel circolo vizioso e perverso del “costo del lavoro”, smettere di comprimere i salari per alzare i loro profitti. Che facessero il loro lavoro! Ecco insomma, i lavoratori fanno il lavoro, che le imprese e le aziende facessero altrettanto: ampliare il mercato di riferimento per alzare la propria competitività e dal mercato ricavare e innalzare i propri profitti

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