Il commercio non è un servizio pubblico
Il tentativo in atto in questo Paese è quello di equiparare un servizio pubblico essenziale con la vendita di beni e servizi spesso superflui. Appare abbastanza scontato che un medico e un infermiere salvano vite e lo debbono fare tutti i giorni della settimana. Anche le forze di polizia devono garantire la nostra sicurezza tutti i giorni della settimana e gli incendi di certo non vanno in vacanza.
Ma vediamo quali sono le differenze sostanziali che ci rendono chiaro il perché di un paragone che non regge, affatto. Intanto le retribuzioni: il medico ospedaliero, una volta che è stata conseguita la specializzazione, riceve un salario variabile tra i 1900 e i 2900 euro su base mensile. A fare la differenza all’interno di questa ampia forbice contribuiscono l’anzianità, gli straordinari, la reperibilità e i turni festivi. Il primario, che è il grado più alto che si può raggiungere all’interno di un reparto, può arrivare a guadagnare anche 4.500 euro netti al mese. Ma il medico di base (quello che riposa domeniche e festivi) è quello che guadagna di più: anche 5.000 euro al mese. Non parliamo poi degli specialisti privati e dei chirurghi, che guadagnano cifre da capogiro.
Un infermiere, invece, con turni e straordinari, che molto spesso sono obbligatori, guadagna intorno ai 1.600 euro mensili. E un poliziotto, aggiungendo straordinari, turni di notte o indennità per i servizi di ordine pubblico svolti fuori sede, anch’esso raggiunge i 1600 euro circa. In ultimo, i vigili del fuoco sono quelli che guadagnano meno, intorno ai 1.300 euro mensili. Sia ben chiaro, a mio avviso gli stipendi di questi dipendenti pubblici sono bassi, soprattutto in relazione a quello che fanno e ai rischi che corrono, ma non sono paragonabili a quello della cassiera che ho menzionato prima.
Mi pare, inoltre, che nei casi citati vi siano indennità per i turni festivi o notturni e clausole contrattuali che prevedono giornate di recupero delle ore lavorate nei festivi o notturni. Per non parlare degli orari: mentre per i commessi regna il far west e le pressioni e le illegalità sono all’ordine del giorno, le altre categorie hanno delle garanzie che consentono la pianificazione della vita sociale e familiare. Inoltre, troppo spesso, un lavoratore del commercio percepisce uno stipendio part time per un lavoro full time o addirittura lavora in nero.
E veniamo alla ristorazione, che incentra i propri guadagni proprio sulle domeniche e sui festivi. Appare evidente che chi approccia a quel mestiere ne è consapevole e compie una scelta chiara. I lavoratori del commercio no! Si sono ritrovati tra capo e collo il Decreto del Governo Monti che, dall’oggi al domani, ha violato il contratto stipulato in partenza, imponendo in corsa l’obbligo al lavoro domenicale, con buona pace finanche dei sindacati firmatari di quel contratto.
Ecco il punto: l’obbligatorietà del lavoro festivo. Senza contropartite.
Insomma, la guerra tra poveri non serve a nessuno. Se un esercito di commessi protesta ha le sue buone ragioni, che non sono da contrapporre alle giuste ragioni di altre categorie di lavoratori. La realtà, quella vera, è che ci stanno impoverendo tutti. E per darci l’illusione del consumo, vorrebbero rinchiuderci tutti all’interno di un centro commerciale.
E allora analizziamole queste ragioni
Gli addetti vendita del commercio lavorano nelle aziende associate, in ordine sparso, a Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti, Lega Coop. E già qui inizia la giungla, perché i contratti nazionali sono più di uno, con Confcommercio e Confesercenti che hanno rinnovato il loro, e Federdistribuzione ferma al 2013. Contratti e retribuzioni diversi per lo stesso lavoro, una stratificazione che non tutela le assunzioni più recenti. Nel lavoro subordinato incide in particolare il part-time involontario (si chiama così quello “offerto” dal datore di lavoro), perché non e una libera scelta del dipendente, ndr), nell’indiretto pesano terziarizzazione, somministrato, merchandiser promoter. Federdistribuzione sottolinea che tra le proprie aziende i contratti a tempo indeterminato sono a quota 91% e Confcommercio, nel suo ambito, stima solo al 15% la quota del tempo determinato.
Qui si parla, beninteso, della platea dei dipendenti diretti. Poi ci sono tutti gli altri. «Gli strumenti contrattuali realmente utilizzati dalle imprese non sono così numerosi – assicura Francesco Quattrone, direttore area lavoro di Federdistribuzione – e in molti casi si tratta di forme impiegate in momenti particolari dell’anno. D’altro canto, per la crisi dei consumi le aziende hanno trovato telai organizzativi adeguati, evitando chiusure dolorose». Part-time, lavoro domenicale e aperture nei giorni festivi sono il paradigma del lavoro nei negozi della grande distribuzione. E il part-time, su tutti, è l’emblema delle donne lavoratrici.
Perché se da un lato, come spiega Yole Vernola, direttore per le politiche del lavoro di Confcommercio, ha «favorito nel nostro settore il 65% di occupazione femminile», dall’altro suona come un freno alla speranza: le multinazionali non ci dicono che il part-time non è quasi mai una libera scelta della lavoratrice, è l’unica opzione che le viene offerta per essere assunta.La possibilità di migliorare questa condizione è remota e spesso non passa attraverso il merito o l’anzianità, il risultato è un salario che viaggia sui 600-700 euro mensili.
La festa del consumo ha le sue cocenti contraddizioni.
La possibilità degli esercizi commerciali e dei grandi ipermercati di tenere aperto sempre, anche durante le domeniche e i festivi, è stata recepita subito da tutti i soggetti interessati, creando un vantaggio e una comodità apparenti per “l’homo consumens” e, nel contempo, gravissimi problemi per i lavoratori, che non hanno più tempo per se stessi e per le proprie famiglie, aggiungendo un ennesimo tassello al puzzle di precarietà, basso salario, difficoltà nella vita di relazione e degli ormai pochissimi diritti per oltre due milioni addetti del settore.
In che misura le aperture domenicali hanno contribuito alla tenuta dei consumi durante gli anni duri della crisi?
La crisi del commercio non ha nessun collegamento con le aperture e la liberalizzazione degli orari, ma nasce dalla mancanza di reddito diretto ed indiretto dei consumatori, ed ecco una prima contraddizione evidente. Le mirabolanti promesse di crescita occupazionale all’indomani del decreto Monti si stanno traducendo oggi in chiusure di migliaia di imprese piccole e grandi, che non reggono la concorrenza. Le nuove assunzioni nella Grande Distribuzione Organizzata sono rimaste lettera morta e si sono tradotte in aumento di carichi di lavoro degli occupati e già precarizzati lavoratori dei centri commerciali.
E il caso di essere più chiari.
Il suddetto aumento dei carichi di lavoro e quello del nastro orario per far fronte alle liberalizzazioni, e siamo alla seconda contraddizione, non si è tradotto in stabilizzazione dei rapporti precari o in crescita salariale. I lavoratori della GDO hanno visto aumentare la flessibilità e la precarietà e nel contempo le aziende ed i sindacati concertativi (il riferimento e alla “concertazione”, pratica di governo che tende ad adottare scelte di politica economica attraverso una consultazione preventiva con le grandi centrali sindacali) “limato” le maggiorazioni festive e domenicali attraverso machiavellici accordi a perdere. Insomma, lavorare di più per guadagnare di meno.
In un paese che fa i suoi continui richiami alla “sacralità” della famiglia e dove i servizi pubblici non sono attivi spesso neanche il sabato, ed in un settore dove l’80% degli occupati sono di sesso femminile, si evidenzia una terza forte contraddizione. Le lavoratrici, che sono la maggioranza dei dipendenti nella grande distribuzione sono le più penalizzate.
Come può una donna che lavora nel commercio – dove la flessibilità è un elemento imprescindibile e straordinari, festivi obbligatori, orari che cambiano ogni giorno, ferie non concordate sono la normalità – rendere conciliabili i tempi di vita e di cura della famiglia con il proprio lavoro?
La contraddizione più manifesta, però, è quella evidenziata dalle confederazioni sindacali concertative che raccolgono firme con la mano destra e contrattano le aperture con la mano sinistra. Assistiamo a campagne mediatiche, creazione di jingle ad hoc e moltissime dichiarazioni di facciata, ma in realtà i sindacati confederali hanno da tempo svenduto le vite dei lavoratori del commercio sull’altare dello shopping ed hanno, nei fatti, accompagnato i processi di liberalizzazione degli orari, rendendo impossibile l’esistenza dei lavoratori di queste nuove “fabbriche metropolitane”.
Finanche il problema del reddito ne esce sconfitto. Le grandi centrali di acquisto che riforniscono le catene della Grande Distribuzione Organizzata dovrebbero fungere da strumento di «razionalizzazione e programmazione delle forniture», in realtà sono un vero e proprio cartello che scarica i suoi effetti sui prezzi al consumo. Le offerte reclamizzate dai volantini pubblicitari danno un grande risalto a prodotti “civetta” per indurre il consumatore a visitare fisicamente il punto vendita e ad effettuare altri acquisti; il risultato finale spesso è molto meno conveniente di quanto si possa immaginare.
Visto che ho citato il neologismo ”homo consumens”, coniato da Zygmunt Bauman per intitolare l’omonimo libro, che ha un sottotitolo esemplare (“lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi”) sarà il caso di tornarci su. I centri commerciali hanno ridisegnato, in pochi anni, i costumi sociali, le condizioni di lavoro e la struttura architettonica della nostre città. Hanno di fatto sostituito le piazze attraverso le quali si connetteva il tessuto sociale di un quartiere disgregando le relazioni umane e la protezione sociale che una piazza favorisce. Nell’antica Grecia la piazza – Agorà – era il luogo simbolo della democrazia del paese, dove si riuniva l’assemblea della polis per discutere e prendere le decisioni politiche. I centri commerciali sostituiscono il senso delle piazze con una traduzione consumistica priva di qualsiasi scambio umano che non sia mediato dal denaro. Si tratta di autentici non luoghi dove i soggetti sociali si incontrano senza interagire, dove il prossimo è visto come colui che ti sottrae un parcheggio o ti scavalca nella fila alla cassa, dove vigono regole non scritte che trasformano questi ecomostri in strane cattedrali del consumo, templi video sorvegliati, transennati, con guardie private armate a ogni angolo e dove ogni cittadino può ingannevolmente sentirsi ricco, ma dove in realtà è prigioniero inconsapevole.
E poi c’è la questione di genere che pesa come un macigno
Sembrerebbe che la maternità sia una colpa. Un vero e proprio esercito quello delle neomamme che devono abbandonare il lavoro. I numeri sono da capogiro e ci raccontano di 25mila donne in Italia costrette a licenziarsi per accudire i figli o per non poter conciliare lavoro e famiglia. A parlare sono i dati dell’ispettorato del lavoro: 37.738 le dimissioni volontarie da parte di genitori con figli fino a 3 anni, 29.879 neomamme, di
cui soltanto 5.261 si sono licenziate per cambiare lavoro, le altre hanno dovuto semplicemente abbandonare la prospettiva di un impiego. Per gli uomini si parla di 7.859 di cui 5.609 sono passati ad altra azienda, differenze abissali.
Dunque, spesso le neomamme sono costrette a lasciare il lavoro.
I motivi di questa scelta forzata sono tanti: dai costi elevati dell’asilo nido alla mancanza degli
stessi; dalle difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia agli stipendi troppo bassi alla questione del lavoro domenicale e festivo. E poi i nonni sempre più impossibilitati a badare ai nipoti poiché a loro volta ancora costretti a lavorare. La regione in testa in questa odiosa classifica è la Lombardia, seguita da vicino dal Veneto, dal Lazio e dall’ Emilia Romagna. Al Sud i numeri sono molto più bassi, ma soltanto per la scarsissima occupazione femminile.
Un figlio a una lavoratrice del commercio costa più dello stipendio mensile
Se andiamo ad analizzare il tipo di lavoro ci accorgiamo che operaie, commesse e impiegate sono le più colpite con oltre 28mila abbandoni contro i 680 delle donne dirigenti e quadro. Insomma, chi guadagna meno è costretto a licenziarsi. Basta infatti considerare che solo per asili e tate si possono spendere anche 500 euro al mese a cui aggiungere le spese per pappe e pannolini, una cifra folle se rapportata agli stipendi bassi di una donna che fa l’operaia, la commessa o l’impiegata. Si arriva così a preferire la disoccupazione piuttosto che lavorare per guadagnare poco e non avere neppure il tempo di badare al proprio figlio.
Insomma, fare la commessa non e un lavoro per donne
Questa è la fotografia di un paese incivile, a corto di servizi per l’infanzia e che trasuda una violenza sottile rivolta alle lavoratrici madri, costrette a rinunciare alla propria autonomia economica e sociale solo perché hanno ceduto alla gioia di avere un figlio. Forse dovremmo ripartire proprio da qui…
È una vera e propria emergenza il part-time nel nostro paese e i dati sono lì a dimostrarlo. Imposto nella maggior parte dei casi e usato come strumento di ricatto, il part time penalizza soprattutto il lavoro e i salari al femminile. La Relazione congiunta sull’occupazione pubblicata dalla Commissione Europea lo scorso 15 marzo 2018 (European Commission -Joint Employment Report 2018 -As adopted by the EPSCO Council on -15th March 2018), non lascia scampo a illusioni, falsi slogan ed inutili consolazioni da parte di chi ancora si affanna a convincere gli italiani che siamo fuori da una crisi e che l’occupazione sia in ripresa.
Di fatto siamo tra i peggiori dei paesi europei che:
- non riescono a dare pari opportunità e accesso al lavoro;
- il mercato è stagnante, non riesce a creare condizioni eque di occupazione;
- tutte le misura di protezione e lotta contro la povertà e l’inclusione sociale non hanno quasi nessun impatto sulle condizioni reali.
Evidentemente, non è questa la sede per approfondire tutti i vari punti esaminati dalla Commissione Europea. Tuttavia vorrei richiamare l’attenzione sul lavoro “part-time”. Perché anche solo accennare a questa situazione globale ci aiuta a comprendere ancor meglio in cosa la maggior parte dei lavoratori si dibatte quotidianamente. Non si tratta semplicemente di “lavoro”, ma del diritto a una vita dignitosa che non costringa i lavoratori all’affanno per arrivare a fine mese. La verità è che esiste una coazione a ripetere situazioni in cui essere sottoposti a difficoltà crescenti, soprattutto se donne, è la norma: si va dallo spauracchio della disoccupazione, fino all’accettazione di ricatti e angherie a cui dover sottostare, come unica condizione per non perdere il posto, dunque un reddito decisivo per l’economia.
Non e solo della Commissione europea la fotografia impietosa del precariato. Infatti. I dati dell’INPS sull’osservazione del Precariato non lasciano dubbi sul fatto che, finito l’effetto traino del jobs act, il mercato si sia sempre più caratterizzato per un’inclusione del lavoro di un “ingente forza lavoro precaria”.
Se a ciò si aggiunge anche la quota di part-time involontario, che sotto le mentite spoglie del lavoro a tempo indeterminato, riflette un’ulteriore condizione di “sottooccupazione”, appare sempre più chiaro che alla situazione fotografata dalla Commissione Europea, l’Italia non solo non ha reagito con mezzi adeguati, ma ha ulteriormente aggravato la propria situazione: maggiore rischio di povertà assoluta e relativa, maggiore diseguaglianza di reddito.
Eppure, spesso si sente parlare di “crescita dell’occupazione. ” E una forzatura o una beffa? Tutte e due le cose. È una forzatura perché il numero di occupati cresce tra i lavoratori “somministrati” da agenzie di lavoro interinale, si tratta di lavori a tempi determinati, di lavoratori intermittenti e par time involontari. È una beffa se si tiene conto che, in media, – considerando gli stipendi più alti – quelle remunerazioni non superano i 10.500 euro all’anno, cioè 875 euro al mese, che è la famigerata sulla soglia della povertà assoluta. In questa desolante fotografia, il prezzo più alto lo pagano le donne: lavorano meno (48,1% contro il 67,5 % degli uomini), e quando lavorano hanno più spesso contratti a termine (19,6% contro il 17,7% degli uomini), sono meno pagate e laddove c’è più part-time, c’è più occupazione femminile (19,1% di part time involontario contro il 6,5% degli uomini).
Focalizzando la nostra attenzione sul part time , osserviamo che esso e sempre stato in continua crescita dal 2005 ad oggi. In effetti, i dati dell’Eurostat evidenziano che l’Italia ricorre a tale forma contrattuale per il 18,5 %, una quota medio-alta rispetto agli altri paesi europei, ma con un utilizzo assolutamente “distorto” dello stesso contratto. Paesi Bassi, la Svizzera, l’Austria, e la Germania ricorrono maggiormente all’utilizzo del part-time, rispettivamente 46,6%, 38,2%, 28,2%, 26,9%, ma il part-time “involontario” incide in misura minima e comunque non più alta del 12,34% dell’Austria, evidenziando che il part-time resta una scelta del lavoratore in un mercato e una condizione socio-lavorativa tra le migliori d’Europa.
Ricorre spesso la definizione di “part-time” involontario. Cosa significa?
Il part-time è nato come una scelta della lavoratrice e del lavoratore: mi riduco l’orario di lavoro, e quindi lo stipendio, per poter seguire con più attenzione problematiche personali: i figli, un congiunto malato, un interesse che non coincide con la vita lavorativa. Nel commercio, invece, succede che l’unica possibilità d’ingresso nel mondo del lavoro è molto spesso un contratto a orario part-time. Dunque non più una scelta del lavoratore, ma un’imposizione del datore di lavoro. Spesso il tempo di lavoro si dilata ben oltre il part-time, ma questo non corrisponde né a un aumento del salario, né a maggiori contributi assistenziali e previdenziali. Diciamo chiaramente che si tratta di una forma di subdolo ricatto e di sfacciato sfruttamento.
Tornando al ragionamento, cosa succede nei paesi europei con un’economia più fragile?
Per l’Italia, insieme a Grecia, Cipro, Spagna, Bulgaria e Romania, in una condizione sociolavorativa già altamente critica per questi paesi, 6 lavoratori su 10 sono costretti a lavorare part-time, sebbene siano disposte ad un impiego a tempo pieno. L’ultima diffusione dei dati sul mercato del lavoro dell’Istat pubblicato il 13 marzo 2018 parla di un’occupazione totale di 23 milioni e 71 mila persone per cui i lavoratori in part-time risultano essere 4 milioni 268mila 135 unità (18,5%) di cui quasi 2 milioni e 700 mila (62,5%) sono costretti ad accettare un part-time in mancanza di occasioni migliori, costretti, nella maggioranza dei casi, a turnazioni e orari che non permettono di svolgere un’altra attività e sempre sotto ricatto del datore di lavoro per non essere licenziati. Che qualità del lavoro? Quali tutele?
Dunque, abbiamo lavoratrici e lavoratori stretti e stritolati tra l’inerzia di politiche attive e occupazionali e la pressione di un mercato stagnante eppur spietato. Se la crescita dell’occupazione significa, in sostanza, lavorare più persone ed essere tutti poveri, far lievitare il numero di persone non disoccupate ma tenerle sulla soglia di povertà. Quali slogan, invocazione a strategie competitive, a cui appellarsi? Sono questi i lavoratori del futuro?
Sono questi i lavoratori destinati alle sfide dell’Europa 4.0. Che crescita lavorativa e professionale si vuole invocare? Siamo oltre l’emergenza.
I lavoratori del commercio vivono questa condizione di continuo ricatto, rappresentato dal contratto part-time, in maniera molto diffusa. Immaginiamo che in un ipermercato di grandi dimensioni, circa l’80% dell’occupazione è a tempo ridotto. Prima esistevano il contratto a tempo indeterminato e il lavoro in nero. Oggi invece troviamo, oltre al part-time, altre forme contrattuali tutte perfettamente legali e fantasiosamente ribattezzate per disorientare i lavoratori:
- tempo determinato
- somministrazione
- a chiamata
- apprendistato
- merchandiser promotor
- interinale
- job on call
- stage
- voucher
- lavoro indiretto
I lavoratori full-time sono una specie in via d’estinzione. Non solo, ma va in scena una nuova forma di schiavitù che prolifera sotto l’ombrello delle grandi associazioni datoriali Confcommercio, Confesercenti, Lega Coop o Federdistribuzione che cercano di far passare per normalità guadagnare 600 euro al mese, quando va bene, e non avere domeniche o festivi, lavorare anche 14 ore al giorno per due settimane di fila, essere senza tutele, vivere sotto ricatto.
Ma non ci sono contratti collettivi nazionali di lavoro?
Infatti, la domanda è: quali contratti collettivi nazionali regolano le condizioni economico normative di questi lavoratori? Quelli che raccolgono il maggior numero di lavoratori sono quello del terziario distribuzione e servizi (applicato da Confcommercio e le sue associate), e quello della distribuzione cooperativa (applicato dalle grandi Coop). C’è poi Federdistribuzione, che raccoglie i maggiori marchi della GDO, che non ha ancora un contratto collettivo di riferimento e applica quello di Confcommercio, ma con il vecchio rinnovo del 2013. Poi ci sono una serie di contratti “pirata”, applicati da molte aziende minori.
Vogliamo parlare adesso dell’ultimo contratto, quelle vigente?
E’ evidente quanto la firma del CCNL del 2015 abbia peggiorato la vita di milioni di lavoratori. E il mio primo pensiero va a tutte quelle donne e quegli uomini che da quella firma in poi sono divenuti ancor più precari, ancor più ricattabili, ancor più alla mercé di imprenditori senza scrupoli; traditi da chi li doveva rappresentare: da quei sindacati che hanno firmato il peggiore dei contratti possibili.
Nell’analisi di questo pessimo accordo comincerei da quello che non c’è: la mancata retribuzione dei primi tre giorni di malattia; non è stata rimossa l’obbligatorietà delle domeniche lavorative. Non c’è alcun passo indietro delle parti, tanto che non è stata apportata alcuna modifica alle questioni più sentite e sofferte dalle lavoratrici e dai lavoratori.
Viene infatti ribadito il pesante attacco alla tutela della malattia con un meccanismo progressivo: nei primi tre giorni di ogni malattia è previsto il pagamento al 100% solo per i primi due eventi morbosi dell’anno. Per il 3° evento l’azienda paga solo il 66%, per il 4° solo il 50% e dalla 5° malattia in poi zero retribuzione per tutti e tre i giorni (sono escluse solo le malattie superiori a 11 giorni). Il risultato, per molti lavoratori, è stato quello di dover essere costretti a lavorare anche se influenzati per non vedersi decurtare una parte del salario e trovarsi in difficoltà con il mutuo, le bollette o la spesa alimentare.
Oggi si parla molto delle domeniche lavorative.
Non è un caso, perché anche la questione del lavoro domenicale è rimasta tale e quale: l’80% dei lavoratori del commercio e della grande distribuzione sono donne e il lavoro nei giorni festivi sta rendendo loro la vita sociale e familiare impossibile, azzerando di fatto i tempi di vita e di cura della famiglia. Appare allora evidente che le questioni sentite dai lavoratori poco importano a chi li dovrebbe rappresentare.
Ma ora passiamo a quello che nell’intesa c’è, purtroppo; a cominciare dalla parte economica. L’aumento contrattuale è, a mio avviso, ridicolo. Parliamo di miseri 85 euro medi lordi per un IV livello (nel rinnovo del 2011 fu di 86 euro, un euro in più e sono passati ben 4 anni), diviso in 5 tranche spalmate in ben 3 anni:
- 15 euro dal 1 aprile 2015
- 15 euro dal 1 novembre 2015
- 15 euro dal 1 giugno 2016
- 16 euro dal 1 novembre 2016
- 24 euro dal 1 agosto 2017
Questi aumenti “a rate” sono stati vanificati dal mancato surplus derivante dalla prestazione straordinaria. Infatti in tema di flessibilità il CCNL prevede fino a 44 ore settimanali per un massimo di 16 settimane annue; ore da “recuperare” entro l’anno. Semplificando, durante i picchi di lavoro l’azienda potrà richiedere il superamento dell’orario stabilito da contratto fino a 44 ore settimanali, per un massimo di 16 settimane. Le ore prestate oltre il normale orario di lavoro non saranno pagate come straordinario ma “concesse” come riduzione di orario nei periodi di minor carico di lavoro.
Per non farci mancare nulla, il rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time), prevede la possibilità di stipulare contratti della durata di 8 ore settimanali. Un salario da fame per lavoratori che risulteranno allo stesso tempo “occupati” per il ministero del Lavoro, ma poveri per l’ISTAT.
Francesco Iacovone
Cobas del Lavoro Privato
Dopo tutta questa analisi fatta cosa proponi
Mi sembra abbastanza scontato, propongo di tornare ad una regolamentazione stretta sul lavoro domenicale e festivo.
Ma non gli risponda neanche