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La cassa: uno strumento di tortura

Proviamo a ricordare il nostro primo giorno di scuola, a tutti noi è stato assegnato un banco di un’aula. Poco importa se a Catanzaro, a Terni o a Trieste, in ogni caso quel banco era circondato da altri banchi “di fronte ad una cattedra” posta sopra una pedana. Questa disposizione non nasce dal caso, a Catanzaro come a Terni o a Trieste.


Questa disposizione permette a chi sale in cattedra di cogliere al volo quanto succede, con un solo sguardo. Chi sale in cattedra stabilisce una gerarchia e da quella posizione privilegiata impone il controllo ed è in grado di prevenire che si instaurino complicità poco desiderate tra gli scolari.

Quale analogia ha tutto ciò con la cassa di un supermercato? Come nell’aula, la barriera casse e la sua disposizione determinano un dispositivo relazionale. Le casse sono a ridosso di un punto di ascolto, di cortesia o come dir si voglia, che vigila a vista le operazione delle cassiere: la posizione privilegiata dalla quale “il capo” ti sorveglia. Ma il capo ti sorveglia anche elettronicamente, spesso a tua insaputa e ad insaputa del cliente, attraverso il grande fratello elettronico che domina discreto dall’alto, ben mimetizzato.

Definire la cassa uno strumento di tortura può sembrare esagerato, in realtà questa iperbole è la figura retorica che più di frequente viene usata dagli addetti del settore. La mia attività sindacale mi ha fatto toccare con mano realtà molto diverse tra loro: le multinazionali del commercio utilizzano linguaggi e regole non scritte che cambiano soltanto per la lingua del paese di provenienza ma sono accomunati dagli stessi meccanismi relazionali. Che siano francesi, svedesi, tedesche o italiane la filosofia aziendale e l’organizzazione del lavoro non cambiano e la definizione strumento di tortura è quella che più di frequente viene usata dalle cassiere per definire la loro mansione.

La stessa definizione la ritroviamo all’interno dell’agile libro L’azienda totale, edito da Sensibili alla foglie. Il libro riesce a mettere a fuoco i dispositivi relazionali entro cui si formano i lavoratori – postmoderni e “flessibili” – delle grandi catene di supermercati. L’analisi delle dinamiche identitarie che si svolgono in queste aziende emergono dalle testimonianze dirette di diversi lavoratori che hanno partecipato ad un cantiere di ricerca il cui scopo era di tratteggiare i modi di funzionamento di un’immaginaria azienda totale ed i tentativi di resistenza che le soggettività in questione mettono in atto per rispondere alla spinta disumanizzante cui sono sottoposte.

La cassiera lo sa quanto è disumanizzante la propria mansione, seduta per tante ore sotto la stretta vigilanza dei capi che non consentono pause; un tempo interminabile a ripetere gli stessi movimenti meccanici causa delle più svariate patologie specifiche: dal tunnel carpale alle tendiniti, dalla periartrite scapolare ai problemi muscolo scheletrici. Ma quello che più usura è lo stress.

Una volta sedute alla cassa, la sensazione che si prova è quella dell’impotenza, della solitudine e la via d’uscita passa solo attraverso la fine del turno; strette nella morsa del doppio potere datoriale, quello aziendale e quello del cliente che, se non rimane contento, si rivolge in direzione rivendicando un provvedimento disciplinare nei confronti della malcapitata cassiera di turno e, come si sa, “il cliente ha sempre ragione”.

I capi impongono il loro potere finanche sul diritto alla pipì. Andare in bagno è una concessione aziendale appannaggio delle più obbedienti e remissive; per tutte le altre: “ci andrai quando ci saranno le condizioni”.

Ma la cassa non è soltanto questo, la cassa è usata per soffocare il dissenso sindacale: se ti azzardi a rivendicare diritti “ti metto in cassa e ti ci faccio morire”. Altra iperbole di uso comune che ben spiega come la cassa è la moderna traduzione del vecchio reparto confino della fabbrica, la destinazione finale per chiunque si oppone a questa folle filosofia di concepire il lavoro.

Mentre scrivo mi vengono in mente mille racconti, mille sofferenze, mille storie che negli anni ho ascoltato, mentre scrivo immagino che chi sta leggendo potrebbe raccontarmi la sua solitudine, la sua sofferenza, la sua storia. Queste storie sono scritte sulla carne di chi troppo spesso è invisibile, storie che mi fanno pensare che la definizione “strumento di tortura” non è poi così distante dalla realtà.

About Francesco Iacovone

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2 Comm.

  1. meglio di cosi’non potevi spiegarti grazie..una ex-cassiera

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