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La scuola precaria uccide il futuro di grandi e bambini

E’ passato qualche giorno, ma ho ancora l’immagine delle 3500 persone che hanno “assediato” il Campidoglio, con tenacia e resistenza, fino a notte fonda. Tra loro, lavoratrici e lavoratori, cittadini romani, utenti dei servizi pubblici, mamme con bimbi in carrozzina e tantissime insegnanti di scuola ed educatrici dei nidi comunali, tra cui molte precarie.

La massiccia presenza di insegnanti e maestre mi ha fatto pensare, a lungo. Forse per una questione affettiva (mia mamma, ormai pensionata, era una loro collega). Più probabilmente perché queste donne vivono una condizione lavorativa inaccettabile e, nello stesso tempo, hanno in custodia il futuro dei nostri figli.

La scuola dell’infanzia rappresenta, insieme al nido, l’ambiente dove inizia un percorso educativo che mira alla costruzione dell’identità del bambino in quanto persona unica e irripetibile e al suo sviluppo psico-fisico. Il lavoro svolto da educatrici e insegnanti assume un ruolo di grande responsabilità, che comporta il prendersi cura di un individuo alla prima conoscenza di relazioni affettivo-emotive, in un contesto quotidiano dove, nello stesso momento, si sperimenta e si “impara”.

D’altronde le parole hanno un senso profondo, e l’etimologia della parola insegnare non lascia spazio a dubbi. Il termine deriva dal latino insignare composto dal prefisso in unito al verbo signare, con il significato di segnare, imprimere e che a sua volta riconduce al sostantivo signum, che significa marchio, sigillo. L’attività dell’insegnante, quindi, lungi dal limitarsi alla trasmissione del sapere fine a se stesso, consiste nel segnare la mente del discente, lasciando impresso un metodo di approccio alla realtà che va ben oltre lo studio.

E allora, come si può conciliare il fondamentale ruolo svolto da queste donne con la precarietà? Quanto incide questa condizione nel riuscire a leggere e decodificare messaggi dai bambini che cominciano ad esprimere le proprie emozioni? Come può una insegnante o una maestra precaria, realizzare progetti che possano rispondere ai bisogni di crescita dei piccoli? Cosa prova in fondo al cuore una donna che vive l’inferno precario da quasi 15 anni?

Mosso dalla mia irrefrenabile curiosità, ho provato a girare la domanda a Claudia, una delle protagoniste di quella imponente protesta:

Ciao Francesco, oggi piove, è una giornata grigia e fredda ed io mi ritrovo a parlare di precarietà, di quella precarietà vera e vissuta sulla mia pelle, insomma di precarietà dal punto di vista “umano” … La precarietà è affrontata sempre dalla stessa angolazione: diritti e rivendicazioni sindacali. Ma dal punto di vista umano mai e poi mai.
Tempo fa, nel periodo in cui si parlava molto, moltissimo di precarietà (uscivano film, venivano pubblicati libri, la Tv faceva interviste e trasmissioni), feci un’osservazione: parlano di noi, dicono di noi, speculano e fanno soldi e successo su di noi… E noi sempre precarie restiamo!
Per parlare di precarietà dal punto di vista umano devo partire da me stessa, dalla mia condizione di donna, di madre precaria. Sapessi quante volte, quando sono sola, la tristezza prende il sopravvento e scoppio in un pianto dirotto…
La mia prima supplenza negli Asili Nido del Comune di Roma risale al 19 Ottobre del 2001. Sono passati quasi 15 anni, una vita: la mia vita, che è profondamente cambiata. Anni fatti di gioie e di dolori; di felicità e di lutti; di persone conosciute e perse; d’amore. Si d’amore, quell’amore che si può provare solo per i propri figli, che nel frattempo sono divenuti grandi.
Lorenzo frequenta l’università e Camilla il terzo liceo linguistico. A volte li guardo preoccupata al pensiero dell’attuale momento storico e politico, alla mancanza di fiducia e di speranza nel futuro dei giovani, soprattutto nel nostro Paese.
E poi… poi mi assale l’angoscia, mi sento aumentare i battiti del cuore e il respiro diviene affannoso: «che cosa penseranno di me Lorenzo e Camilla? Della loro madre, che a 52 anni è ancora precaria?».
Certo, leggere la precarietà in chiave politica e sindacale è facile. Tutti pronti a fare analisi; a pensare percorsi di lotta; a formulare una serie di ipotesi, anche in forma retorica. Ma spesse volte si dimentica che il precario e’ l’anello più debole della catena, il più debole dei già deboli lavoratori, il più sfruttato…
Politica e sindacato sono anni che fanno campagne sulla pelle dei precari, e poi??? Vanno al governo e fanno le peggiori porcate: Jobs Act su tutte!
Ma a livello umano… A livello umano e oserei dire psicologico, è tutta un’altra storia. Trovare le parole è difficile per spiegare una condizione che umana non è! Si può spiegare a parole l’ansia della chiamata giornaliera? Si può spiegare a parole la paura di non poter lavorare più. Si può spiegare e far capire tutto questo? Vivere giorno dopo giorno, questa vita precaria?!?!
Ti ringrazio Francesco, per esserti soffermato, anche solo un attimo, a pensare al risvolto umano di una vita da precaria.
Claudia Bruschi

Grazie a te Claudia ed in bocca al lupo, di cuore!!

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