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L’insostenibile solitudine della cassiera

Quanta solitudine deve aver provato Ombretta davanti a quel fucile a canne mozze brandito da un criminale a pochi passi da lei? Quanto interminabili sono stati quegli attimi che hanno preceduto lo sparo che le ha trafitto il petto?

E’ di qualche giorno fa la notizia dell’ennesima rapina ai danni di un supermercato, dell’ennesima cassiera ferita; un colpo al petto con un fucile a canne mozze da distanza ravvicinata. Ombretta Cordoni, cassiera al Penny Market di Lucca, è finita in ospedale in prognosi riservata, ultima vittima dell’escalation impressionante di rapine a mano armata ai danni di supermercati e centri commerciali dove donne e uomini, spesso giovani e precari, lavorano per quattro soldi e in totale assenza di sicurezza.

Ombretta è fuori pericolo di vita. La prognosi è di un mese e attualmente si trova in una stanza al secondo piano dell’ospedale San Luca nel reparto di terapia intensiva, ma è ancora vivo il ricordo del giovane commesso di un discount che lo scorso dicembre rimase gravemente ferito da un colpo di pistola alla testa sparato nel corso di una rapina compiuta in un negozio della catena ‘Prix’ ad Albignasego, in provincia di Padova. Andrea Furlan ancora lotta per la vita, noi dobbiamo lottare con tutta la nostra forza per ottenere più attenzione alla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Ma torniamo alla solitudine, quella solitudine che è sentimento diffuso dei dipendenti dei centri commerciali, luoghi in cui si configurano le condizioni di lavoro che il nuovo capitalismo vorrebbe generalizzare. Dorothée Ramaut, medico del lavoro in un ipermercato della periferia parigina, nell’ottobre del 2006 pubblicò un diario della sua esperienza, “Journal d’un médecin du travail”.

Dorothée Ramaut, nel suo diario, fornisce un’interessante testimonianza della sofferenza quotidiana di questi lavoratori (sui circa due milioni di lavoratori del commercio, in Italia, quasi l’80% sono donne), le difficoltà di essere ascoltati e le conseguenze che può avere tutto ciò sulla salute fisica e mentale. L’osservazione della Ramaut ha messo in luce la pressione delle gerarchie, sui lavoratori precari e su se stesse, la solitudine del lavoratore a causa della progressiva debolezza sindacale e la paura di perdere il posto. Ovviamente tutto ciò è ben nascosto agli occhi ignari della clientela e degli organi ispettivi da una massiccia dose di autoritarismo e di omertà.

Proviamo a discutere delle questioni vere che impattano pesantemente sulla vita delle lavoratrici del commercio: salario, precarietà, part-time, discrezionalità e libertà.

In ballo ci sono innanzitutto le condizioni salariali. Finalmente scopriamo che tutti, fulminati sulla via di Damasco, riconoscono che in Italia esiste un problema di bassi salari. La forma contrattuale più usata nel commercio è quella part time, ma le multinazionali del commercio non ci dicono che il part-time non è quasi mai una libera scelta della lavoratrice, è l’unica possibilità che le viene offerta per essere assunta. La possibilità di migliorare questa condizione è remota e spesso non passa attraverso il merito o l’anzianità, il risultato è un salario che si aggira sui 600 – 700 euro mensili. Chi fa il part-time ha bisogno di svolgere una seconda occupazione per mettere insieme un salario appena sufficiente, ma questo è reso impossibile dall’organizzazione del lavoro messa in atto dalle aziende. I turni delle lavoratrici spesso vengono esposti il venerdì o il sabato della settimana precedente e variano in continuazione a seconda delle esigenze commerciali e non nel rispetto dei tempi di vita e della cura delle famiglie. A volte, sempre per le esigenze dell’impresa, i turni vengono cambiati per telefono nella stessa giornata. Può succedere che i part-time beneficino di incrementi dell’orario di lavoro, ma nessuno dice che si tratta di aumenti di ore contrattuali temporanei e discrezionali. La speranza di poter ottenere questi incrementi costituisce uno degli strumenti preferiti dalle aziende per mantenere sotto ricatto chi lavora. Ed è questa discrezionalità e ricattabilità che le donne subiscono quotidianamente, questo clima diffuso che incide nella vita di relazione e sulla salute di queste lavoratrici.

Il lavoro precario, altra forma contrattuale che favorisce la possibilità dei datori di lavoro di poter “ricattare” le lavoratrici, è una condizione molto diffusa per le donne del commercio. Perché assumere ex novo dipendenti da formare e senza esperienza e lasciare a casa persone che da anni danno il loro apporto all’impresa con professionalità ed esperienza? La risposta a questa domanda è inquietante: non le chiamano perché non vogliono rischiare che si avvicinino troppo ai 36 mesi di lavoro (questo vale per l’Italia ma la filosofia è la stessa con il cambiare dei paesi e delle rispettive leggi), validi per l’assunzione obbligatoria per legge. E’ il modo che le aziende del commercio hanno escogitato per aggirare la legge dell’assunzione obbligatoria dopo 36 mesi: ti sfrutto per qualche anno e poi ti saluto, sostituendoti con altri precari. Proprio quelle aziende che si riempiono la bocca con la parola legalità, trovano il modo di farsi beffa di una legge che tutela i lavoratori dal cancro della precarietà. Un meccanismo effettivamente ingegnoso di un settore che si conferma all’avanguardia nel trovare nuove forme per lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori. Altri aspetti importanti sono quelli relativi al lavoro in nero, al sommerso, alla somministrazione, ai finti appalti di manodopera, agli stage creativi, insomma a tutte quelle anomalie contrattuali che hanno come perno la precarietà e che rendono ancora più deboli e sottopagate le donne del commercio, lasciando mano libera a chi le sfrutta.

Chi vive la realtà di un supermercato o di un ipermercato sa benissimo che è difficoltoso anche poter andare in bagno ed è spesso necessario chiedere il permesso. L’esigenza fisiologica viene considerata parte integrante dell’organizzazione del lavoro e del potere datoriale. E “denunciare, protestare o anche solo discutere le decisioni che ti riguardano non è affatto facile.” Questo è il clima che si vive nei luoghi di lavoro del commercio. La lettera aperta scritta delle donne della Coop nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre 2012, denunciò questo clima da caserma e fu accompagnata da un grande risalto mediatico. Ma posso fare molti altri esempi che mi hanno visto impegnato o che si trovano semplicemente navigando in rete (per approfondimenti vedi i link in calce all’articolo). Ma poi ci sono anche tante altre storie che sento ogni giorno durante la mia attività sindacale e tantissime altre che purtroppo non ascolta nessuno, storie di ordinarie vessazioni vissute nella solitudine e nel dolore.

Le donne del commercio, come le donne di tutti gli altri settori, lavorano di più per guadagnare di meno e non ricoprono quasi mai ruoli apicali nelle aziende. Il principale fondamento delle pari opportunità sarebbe l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione nel rispetto dei diritti dell’individuo. In particolare, quando si parla di pari opportunità di genere, s’intende la necessità di permettere e garantire alle donne di fare scelte e compiere azioni, sia nella vita privata che nella vita professionale, senza alcun tipo di diseguaglianza di genere, rendendosi conto delle mille potenzialità, creatività, abilità e motivazioni che le donne possono apportare alle società. Nella realtà molte donne del commercio hanno dichiarato di aver perso il lavoro a causa di una gravidanza, e la lettera di dimissioni in bianco è la modalità più diffusa con cui le leggi a tutela della madre lavoratrice vengono aggirate. Molte donne del commercio lamentano di subire molestie e atteggiamenti vessatori da parte dei capi, che spesso sono maschi. Ma allora a cosa servono le commissioni paritetiche contrattuali e i vari consiglieri di parità provinciali, regionali e chi più ne ha più ne metta? A creare stipendi per i soliti noti? La battaglia per le pari opportunità è una battaglia di civiltà e non può certamente restare un enunciato.

Salario, abbattimento della precarietà, possibilità di passare dal part-time al tempo pieno, contenimento della discrezionalità delle direzioni, contrattazione dei tempi e dei turni, pari opportunità e, non ultimo, libertà di parola e di critica, queste sono le questioni in campo. Questioni difficilmente aggirabili se si vuole vincere l’insostenibile solitudine delle cassiere.

APPROFONDIMENTI:

Il racconto di una ex addetta alle vendite nella multinazionale Lidl

La storia delle cassiere Carefour che potevano fare “pipì solo ogni quattro ore per direttiva aziendale”

Le cinque ex precarie Coop che si raccontano

About Francesco Iacovone

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2 Comm.

  1. Raffarella rella

    Vogliamo parlare del “premio” che da il Billa??? Regalano punti sulla tessera (che corrispondono a 10 o 20 euro di spesa gratis) se le cassiere battono più pezzi possibili al minuto,come se fossimo delle macchine!!Se guardiamo il compenso non è assolutamente niente rispetto al culo che si fa una cassiera ad andare il più veloce possibile e l’angoscia che prova a ogni chiusura nel sentire le lamentele se non ha fatto tot pezzi al minuto

  2. Faccio la cassiera da 14 anni è un lavoro troppo da stress …solo chi la fa può capire!!!!

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