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Lorenzo: lo studente, l’università e la voglia di un futuro migliore

Mi scrive Lorenzo, giovane studente universitario di Roma Tre. Tra le pieghe delle sue parole si scorge una lucida analisi del modello sociale che ci stanno inoculando, come un veleno. Per Lorenzo, l’antidoto “all’ignoranza collettiva che sempre più prepotentemente cerca di conquistare spazi che non gli spettano, alla quale tanti giovani e meno giovani di buona volontà cercano di opporsi ogni giorno”, è fatto di “coraggio” e, perché no, di un po’ “d’amore”.

Vi lascio alle sue parole…

Le tappe della vita sono imprevedibili, ma l’università per alcuni sembra una predestinazione. Ero ancora nel pancione di mia madre quando ascoltavo tra i miei genitori frasi del genere: “farà quello che più gli piacerà”. Poi è giunto il momento di scegliere e io non ho potuto scegliere: avrei voluto fare il classico, ma alcuni stupidi test, fatti alle scuole medie, indicavano che per me sarebbe stato meglio frequentare una scuola professionale; già allora il mio pensiero andava fuori le righe, meglio non rischiare quindi, meglio formare un tecnico che avrebbe eseguito gli ordini e risposto alle leggi della fisica, piuttosto che a quelle del suo cuore.
Alla fine non andai troppo lontano dalle previsioni e mi iscrissi ad un tecnico industriale. Ma poi ecco all’orizzonte una nuova possibilità, una nuova occasione per interagire con il mio futuro. Negli anni mi ero appassionato della letteratura e della filosofia, ed è per questo che avrei voluto iscrivermi ad un corso universitario di lettere: ma poi mi dissero che quegli studi non sarebbero serviti a niente e allora, anche questa volta, non scelsi. Dunque, eccomi qui a studiare il diritto, specchio della vita umana e racconto delle nostre malefatte.
L’università: simulacro degli studenti in cerca di un’identità funge da ultimo baluardo, conquistato il quale siamo pronti per venderci al miglior offerente. L’università: sede dei perbenisti e dei benpensanti, è anche un momento di riflessione, sulla vita in generale. A 5 anni le bambine ti chiedevano: “di che squadra sei?”; a 15 anni volevano sapere con quante ragazze fossi andato; ora, a 25 anni, le colleghe ti chiedono quale lavoro fa tuo padre, che macchina hai e altre cazzate del genere, a mio avviso poco interessanti .
Allora senti che qualcosa è cambiato, non solo nel contesto, nel modo di vestire e di atteggiarsi delle persone. Non solo esteriormente, ma anche nell’intimo dei nostri cuori e delle nostre menti: anche loro hanno messo un velo addosso per ovattare le emozioni, per proteggersi dagli urti che la vita inevitabilmente ci riserva.
Senti che le distanze si fanno più evidenti, tra professori e studenti, tra studenti e il personale universitario, tra gli studenti stessi, magari seduti per giorni e settimane a fianco, durante un intero semestre di lezione, senza che abbiamo spiccicato una sola parola, perché l’importante è sentire la lezione, non per capire, ci mancherebbe, ma per accorgersi quando il professore, più o meno simpaticamente, dirà: “questo concetto è fondamentale, se non lo sapete…” oppure, “questa è una domanda che sicuramente vi capiterà in sede di esame”.
Dunque l’importante è superare l’esame e non condividere la conoscenza; anche quando si studia insieme, si cerca nell’altro un ologramma che al posto nostro possa ripeterci quello che abbiamo appena ripetuto. Mors tua vita mea: questo è il latinetto che meglio degli altri potrebbe descrivere la vita universitaria, ma anche, e forse meglio ancora, la società nella quale oggi viviamo: falsa, opportunista, convenzionale, ma perché fatta di persone ipocrite, narcisiste e in cerca di una libertà che in fin dei conti non si traduce in nient’altro che solitudine.
Nonostante tutto questo, dentro di me sento ancora molta forza, anche se la frustrazione è sempre più grande; quella frustrazione che oggi convince molti giovani del fatto che lo studio sia superfluo; che convince chi ha intrapreso un corso di studi ad abbandonarlo; forse, quella stessa frustrazione che sentiamo un po’ tutti noi e che mina i rapporti familiari, facendoci perdere la voglia di comunicare, di comprendere, di credere ancora nella fiducia reciproca.
La speranza è quella di raggiungere un compromesso accettabile tra il nostro essere ed il nostro voler essere, tra le nostre esigenze e le possibilità che ci da la vita, senza mai però piegarci ad una ignoranza collettiva che sempre più prepotentemente cerca di conquistare spazi che non gli spettano, alla quale tanti giovani e meno giovani di buona volontà cercano di opporsi ogni giorno, con coraggio e con amore.
Un Saluto, Lorenzo Callari

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