Il popolo dei senza domeniche ha preso parola, ha gridato in faccia a tutti che i lavoratori del commercio non sono invisibili e hanno ancora dei diritti. In soli 5 giorni il post “Il popolo dei senza domeniche” ha superato le 9.000 condivisioni su facebook e conta oltre 200mila visualizzazioni. Segnale inequivocabile di quanto sia sentito il problema del lavoro domenicale e festivo da chi si guadagna da vivere dentro un centro commerciale. Insomma, #maipiùsenzadomeniche, oltre ad essere un hashtag, è una necessità.
Mai mi sarei aspettato tanto (e neanche il mio povero server): messaggi, commenti, tweet, mail e qualche articolo sulla stampa on line. Avete scritto in tanti e non è stato semplice scegliere una storia che le rappresentasse un po’ tutte.
Alla fine ho scelto la storia di Luca (nome di fantasia): commesso da MediaWorld. Luca, 40 anni, vive con la compagna (nonché collega di lavoro), dalla quale ha avuto due splendidi gemelli. La scelta non è stata casuale, i lavoratori della multinazionale tedesca sono in lotta e rischiano il licenziamento. Luca, oltre ad avermi scritto, ha partecipato al presidio di protesta che si è svolto ieri a Bologna e la storia me l’ha raccontata di nuovo a parole; mentre la sua azienda, nell’oscurità di un lussuoso hotel, tentava di rubargli il futuro.
Il sorriso di Luca risplendeva sotto il sole, nonostante le avversità e le preoccupazioni; ed io ho potuto ascoltare dalle sue stesse labbra tutta la rabbia, la determinazione e la voglia di non gettare la spugna: “Sai, lo faccio per i miei figli…”
Ciao Francesco, questa è la mia storia. La storia della morte di un commesso viaggiatore.
Questo è un racconto degno della penna di Arthur Miller. Narra le mie vicende: Luca (nome di fantasia), un commesso che 10 anni fa ricevette la chiamata da MediaWorld, un’importante multinazionale del commercio. Era un’azienda in grande espansione con decine di negozi nei centri commerciali. Questi ultimi sono divenuti le agorà del nuovo millennio. Io li vedevo come cattedrali nel deserto con fitti corridoi illuminati a giorno, popolati spesso da clienti e personale senza volti felici e distesi.
Decido però di mettermi in gioco, con la possibilità di inserirmi in un ramo in continuo sviluppo: l’elettronica di consumo. Il colloquio è entusiasmante, la direzione del personale dipinge il quadro di una compagnia che, nonostante le migliaia di lavoratori, è soprattutto una grande famiglia. Il lavoro inizia, i colleghi sono disponibilissimi ed il fatturato è in costante crescita, come i ritmi di lavoro. Ma a fine turno, nonostante la fatica, mi sento appagato: ho una stabilità economica che mi permette di guardare ad un futuro radioso per me e quella collega che sto iniziando a frequentare.
Passano i mesi e quella frequentazione regala alla nostra coppia l’attesa di due gemelli. Grande è la nostra gioia, anche perché l’azienda premia questa nuova vita con un sostanzioso pacco di beni e dà la possibilità alla neo mamma di modulare gli orari per i primi tre anni. La domenica in famiglia risulta complicata da passare insieme, ma perlomeno viene retribuita con una maggiorazione più alta di quella del contratto collettivo nazionale. Un giorno, però, la notizia della crisi finanziaria globale echeggia da quella parete di televisioni ultra definite esposte in negozio ed io inizio a pensare: “come ne usciremo?”.
I titoli di giornale raccontano, a giorni alterni, un mondo che rischia il collasso o una crisi che era stata sopravvalutata e da quel momento si risvegliava in me una visione critica e la voglia di lottare. Scoprimmo che l’azienda voleva mutare alcuni aspetti lavorativi: nel giro di pochi mesi, infatti, il calo di fatturato e la liberalizzazione degli orari e giorni di apertura non hanno portato a nessuna assunzione in più (motivo principale della legge contenuta nel pacchetto “Salva Italia” voluta dal governo Monti), anzi hanno prodotto il lievitare del capitolo costi di gestione nei conti economici.
L’azienda inizia ad essere vista come l’occhio del grande fratello di Orwell; sempre più richieste imperative e categoriche: vengono bloccati gli straordinari, fissati premi produttività totalmente irraggiungibili, tagliata la figura del caporeparto, bloccati gli scatti di livello (anche per chi li attendeva da anni) E poi stagisti sfruttati con mansioni di 4° livello, meno rinnovi per gli apprendisti (molto probabilmente sotto la soglia del CCNL), annullate le possibilità di modulare gli orari alle neo mamme, trasferimenti forzati a centinaia di km dalla propria casa; e infine vengono imposte pause anche negli orari corti, fino ad arrivare all’orario spezzato.
Io e la mia compagna la mattina ci alziamo e ci dirigiamo al lavoro sentendoci solamente un numero e non più i componenti di una grande famiglia. Circondati da tante maglie rosse con ognuna una cifra differente, comprendiamo che quel rapporto schietto e senza filtri con i nostri responsabili è un miraggio.
La famiglia ne risente, si assottiglia sempre di più il tempo da poter passare insieme, la domenica ed i festivi passati nei parchi o in gita sono ormai un miraggio. Anche l’andare al lavoro spensierati è divenuto un lontano ricordo. Nel negozio ormai da tempo si vive un’atmosfera grigia, figlia di continue richieste da parte delle regie dei punti vendita e di un comandante della nave che ha decisamente perso il comando e naviga in piena burrasca; ma non sarà sicuramente il buttare a mare una parte del “carico” (chiusura di 7 punti vendita e taglio del 10% dell’organico nazionale) che la condurrà in acque di bonaccia.
Purtroppo, infatti, il 24 Aprile (proprio alla vigilia della festa della Liberazione) io e la mia compagna riceviamo, durante una riunione, la notizia della chiusura del nostro punto vendita entro 2 mesi; fino a 5 minuti prima eravamo impegnati a confrontarci sull’ennesimo volantino, sulla problematica di un cliente e sognavamo le ferie che si stavano avvicinando, ma ora ci sentiamo cadere il mondo addosso. Le facce dei colleghi sono un misto di rabbia, incredulità, sdegno e frustrazione. Perché noi non ci possiamo rinfacciare nulla, abbiamo sempre dato il 100% e, dopo aver mandato giù tutti questi tagli e bocconi amari, non ci aspettavamo questa pugnalata alle spalle. Ci viene chiesto, durante la riunione, di chiudere il negozio con dignità, di rimanere a lavorare nei giorni seguenti per dare una mano a svuotare quel negozio che per anni abbiamo passato a riempire, per dare un buon servizio alla clientela. Nei giorni seguenti riceviamo anche il raddoppio della vigilanza che ora ci “pedina” in negozio come se fossimo ladri: è un colpo basso alla nostra integrità morale. Non voglio neanche pensare che l’azienda stia procedendo con questa soluzione per liberarsi di me, della mia compagna e di tanti altri che hanno dei contratti full-time che costano il doppio di quanto costerebbe, oggi, assumere un giovane con gli sgravi fiscali. Ma com’è il detto? A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.
Dopo aver dato anima, sangue e sudore per questa società, ora la paura del commesso viaggiatore è quella di ritrovarsi a 40 anni ad essere un peso per i propri genitori (che vivono con la pensione minima), quella di dover passare fin troppo tempo a casa con i figli e dovergli spiegare, trattenendo le lacrime, il significato delle parole solidarietà, austerità, povertà; che in comune hanno soltanto un malinconico presente ed un triste futuro. Al commesso resta soltanto il sogno di non finire come il protagonista del racconto di Arthur Miller: dimenticato da tutti, messo in disparte e lasciato a suicidarsi per la paura di non finire schiacciato dalla responsabilità di una famiglia che non riesce più a mantenere.
Luca, commesso MediaWorld
Ora giudicate voi se è questa la società che ci meritiamo. Quelli come Luca qualcuno li chiama invisibili; ma io li vedo, eccome se li vedo. Vedo le loro ansie, i loro pianti. Giovani e meno giovani preoccupati per il proprio futuro, per i propri figli; soffocati da quella precarietà esistenziale che ci stanno inoculando come un veleno. Quelle facce le ho impresse nella mente. Eroi di tutti i giorni che combattono onestamente per un misero salario; donne e uomini precari, sfruttati e con sempre meno diritti.
Li vedo, eccome se li vedo, e non ho alcun dubbio: io sto dalla loro parte, dalla mia parte, dalla nostra parte!
STORIA MOLTO TOCCANTE.
CORAGGIO LUCA E COMPLIMENTI FRANCESCO . L’UNIONE FA LA FORZA, CE LA FAREMO!
Ciao Flavia, eccole le risposte che amo. La prospettiva di unire ciò che è stato diviso e l’ottimismo sulla riuscita. Si, ce la faremo!
Lavoro come commessa da un bel po’ di tempo per lanostra categoria non ci sono tutele , lavoro tutte le domeniche e feste incluse, con le nostre famiglie non ci vediamo a stento pur vivendo nella
stessa casa, fare un figlio e pensare di crescerlo continuando a lavorare e’ solo
un miraggio.sei fuori SOLO AL PENSIERO.
Buonasera Chiara, con poche parole hai descritto in maniera perfetta le condizioni di chi si guadagna da vivere in questo settore. Aggiungo solo che i miraggi,”l’essere fuori”, essere un po’ visionari può essere la via per cambiare questa insostenibile situazione. In bocca al lupo a te…
Solidarietà da una mamma disoccupata che si è inventata anche commessa per un po’. Coraggio Luca e coraggio ba tutti quelli che vivono la tua situazione.. Ce la faremo tutti quanti…
Grazie Stella, la tua solidarietà da disoccupata vale doppio e il tuo ottimismo vale oro. Ce la faremo tutti quanti, insieme!
In bocca al lupo Luca
Leggo con rammarico tutto ciò e mi accorgo di non essere sola a vivere e vedere quello che è il nostro presente e che sarà il nostro futuro…ciò che accade a Luca potrebbe a breve accadere ad ogni uno di noi. Si parte con riduzioni di stipendio tagliate qua’ e la’ nel corso del tempo così l’effetto ” diminuzione”stipendio è meno scioccante, il problema è dove si arriverà! Le domeniche dopo anni pesano a passarle fuori casa e pesa il fatto di vedere le percentuali di retribuzione del festivo abbassarsi dopo aver contribuito( nel proprio piccolo da formichine) all’ espansione di una azienda. Rimane x ora tanto amaro!!!
Cara Giovanna, trasformiamo quel rammarico di cui parli in forza collettiva, che ci permetta di riconquistare i diritti persi.