“La difesa dei lavoratori non passa anche attraverso la denuncia del mobbing? Questa domanda magari la facciamo al sindacalista…”
Una domanda posta con semplicità che mi ha interrogato a lungo. E’ il maggio del 2015 e siamo a Roma, a un passo da Campo de’ Fiori, durante la presentazione del libro “Nuovi Schiavi”. Flavia è una giornalista, ma ancor prima un avvocato, e le sue domande sono le più acute della serata.
L’avevo notata ancor prima che iniziasse l’evento. Seduta sulla panchina appena fuori la libreria, in piena armonia con lo scorcio mozzafiato di uno dei più caratteristici “vicoletti” romani. Il libro tra le mani, le pagine che scorrevano tra le dita, la lettura spasmodica e il viso tanto radioso da farmi pensare: “quella ragazza deve essere innamorata”.
Ma torniamo alla sua domanda, a quella domanda che gran parte dei lavoratori che incontro mi pongono fiduciosi, e proviamo a dare una risposta.
Il termine mobbing (dall’inglese [to] mob «assalire, molestare»), se riferito all’ambito lavorativo, indica una pratica vessatoria e persecutoria, spesso sconfinante in una forma di terrore psicologico, perpetrata dal datore di lavoro o dai colleghi (mobbers) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) al fine di emarginarlo o espellerlo dall’ambito lavorativo.
Per comprendere meglio il fenomeno, ci vengono incontro gli etologi che con lo stesso termine indicano il comportamento messo in atto da un gruppo di potenziali prede (per es. uccelli passeriformi), nei confronti di un predatore (per es. un falco), per intimorirlo e dissuaderlo dall’attacco.
Insomma, si definisce “mobbing” il perpetrarsi di in una serie di atti che hanno lo scopo di perseguitare un lavoratore per emarginarlo e spingerlo a presentare le dimissioni. Un processo sistematico e intenzionale di cancellazione della figura del lavoratore che viene portato avanti attraverso una continua eliminazione dei mezzi e dei rapporti interpersonali che sono necessari allo stesso, per svolgere la sua normale attività lavorativa. Un lavoro sottile e silente, proprio come quello di un serial killer.
Questo per quanto attiene alla pura e semplice definizione di questa “attività”, lesiva della dignità professionale e umana del lavoratore; dignità da intendersi sotto l’aspetto morale, psicologico, fisico o sessuale. Per approfondire questo argomento e per misurarne la diffusione, basta digitare “mobbing” sul motore di ricerca Google: “circa 11.300.000 risultati (0,24 secondi)”.
La definizione di mobbing, dal punto di vista teorico, non è particolarmente complessa; ma dal punto di vista pratico è sempre molto difficile fornire al giudice la prova dei fatti. L’onere di dimostrare gli atti vessatori, continuati nel tempo, è a carico del lavoratore. La prova può essere fornita quasi esclusivamente tramite dei testimoni che normalmente sono anche i colleghi del lavoratore vessato e che molto spesso continuano a lavorare proprio alle dipendenze di quel datore di lavoro.
Il lavoratore dovrà poi dimostrare l’esistenza dei danni di cui richiede il risarcimento e, soprattutto, il nesso casuale tra la condotta del datore di lavoro e il danno biologico permanente subito.
Una corsa ad ostacoli dolorosa e colma di solitudine che spesso termina in un nulla di fatto, durante la quale solitamente si inasprisce il bossing o mobbing verticale, (realizzato dal datore di lavoro comunque da un superiore), e il mobbing orizzontale (l’emarginazione subita dai propri colleghi di lavoro).
Come potete vedere, la domanda di Flavia apre un mondo complicato e sofferente e rispondere in un post sarebbe un atto di presunzione. A Flavia risponderò con le parole che ripeto come un mantra durante ogni assemblea sindacale, in ogni luogo di lavoro, ad ogni lavoratore; con la speranza che possano lasciare un segno ed arginare un fenomeno tanto violento.
Il mobbing è un comportamento illecito punibile penalmente che, troppo di frequente, viene perpetrato con la complicità inconsapevole dei lavoratori, generata dalla paura e dalla necessità di compiacere il capo. Le conseguenze di tutto ciò possono provocare, al collega che ne è oggetto, da una “semplice” dermatite a una gastrite, dai disturbi d’ansia alla depressione. Lo stress psichico provocato dal mobbing è un cofattore dell’insorgenza dei tumori, un ostacolo alla buona risposta terapeutica e può finanche indurre un lavoratore al suicidio.
Questo schifoso reato è un problema che ci riguarda tutti, nessuno escluso. E’ responsabilità di ognuno di noi vigilare e respingere con determinazione ogni tentativo di esclusione, ogni umiliazione alla professionalità, ogni attacco alla dignità.
La risposta più efficace, cara Flavia, è quella della difesa collettiva, della difesa da “branco civile”: evita quel difficile ed incerto percorso legale, è più rapida e soprattutto ci rende migliori.
Vi lascio all’approfondimento di Flavia, pubblicato sull’Huffington Post qualche giorno più tardi.