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Nei centri commerciali un Natale precario e senza rossi da calendario

Mancano pochi giorni al Natale, un Natale di profonda crisi economica che colpisce finanche le luminarie. La sensazione è palpabile, la mia città è triste tanto da non aver acceso a pieno regime la “luce di Natale”, forse anche per tener nascosta la profonda ferita inferta da quel “mondo di mezzo” che ha fatto affari sulle spalle dei cittadini romani strumentalizzando i rom, gli immigrati, la “monnezza” e ogni genere di appalto che ruota intorno alla città.

Ma le luci soffuse di questo Natale di crisi non celano le condizioni che vivono milioni di lavoratori che, per “consegnare” i tanto attesi balocchi, vengono sfruttati, umiliati, sottopagati e gettati in strada in attesa del Natale successivo.

Sono molte le questioni che impattano pesantemente sulla vita dei lavoratori del commercio, ma su tutte ce ne sono due che emergono in tutta la loro violenza: la liberalizzazione degli orari che consente agli esercizi commerciali e ai grandi ipermercati di tenere aperto sempre, anche durante le domeniche e i festivi, e la precarietà strutturale che è fondamento dell’organizzazione del lavoro di questi templi dello shopping. Tanto che per questi lavoratori e per le loro famiglie le feste natalizie sono un vero e proprio girone dantesco. Nessun riposo domenicale e festivo, tanto stress e pochi soldi. Tanti bambini che scriveranno una letterina mentre i genitori sono dietro una cassa, a impacchettare regali o a disossare agnelli.

Questo disagio crescente, accompagnato da tanta solitudine, ha generato la nascita di gruppi spontanei su facebook dal nome eloquente: Domenica no grazie, gruppi che hanno trovato una sintesi nazionale sulla pagina facebook Domenica no grazie Italia e con i quali abbiamo condiviso finanche un’iniziativa sotto Montecitorio. Insomma, la sofferenza di questi lavoratori è palpabile e, mentre riordinavo le idee per cercare di tradurre quel sentimento in parole, mi è arrivata la e-mail di Simona, una mamma che lavora all’interno di un centro commerciale.

Simona (il nome è di fantasia), è riuscita a dipingere con poche e semplici parole la miglior sintesi di cosa rappresenti la precarietà ai tempi della crisi, una storia come tante purtroppo, la storia di una donna che non vive il lavoro con dignità, con libertà. Che è costretta a viverlo come una colpa, con la frustrazione di non poter stare accanto ai propri figli.

In punta di piedi vi lascio alle sue toccanti parole:

Ciao Francesco, questo è lo sfogo di una cassiera spaventata…
Guardo i miei figli e la mente vola ai ricordi di bambina. Vivere con i nonni e notare i sorrisi dei miei coetanei illuminarsi alla visione della propria madre all’uscita della scuola. Ero serena e tranquilla ma in fondo al mio cuore c’era la consapevolezza della mancanza e non ti nascondo che provavo un pizzico d’invidia.
Negli anni a seguire ho fatto i conti con quella mancanza e ho promesso a me stessa che nell’eventualità fossi divenuta madre, sarei stata una mamma presente. Di quelle che al ritorno dei figli da scuola gli fanno trovare la tavola imbandita e pietanze calde, di quelle che rimboccano sempre le coperte, insomma di quelle il cui amore non viene mai messo in discussione.
Ho 36 anni, due figli, e questa promessa non l’ho mantenuta. I miei sensi di colpa cercano rifugio nel cambiamento del contesto sociale, nell’incalzare delle esigenze familiari. Qualcuno dice che devo ritenermi fortunata ad avere un lavoro, una seconda entrata economica vitale per il mio nucleo familiare. Ma è un lavoro part time, e la crisi sta tentando di portarmelo via.
A volte, se mi comporto bene e accetto dei compromessi, ottengo delle piccole estensioni d’orario contrattuale, riuscendo così a non arrivare alla terza settimana già con lo stipendio finito. Però mi sento sempre in un limbo, sempre sotto ricatto, sempre precaria. Nel mio luogo di lavoro, nel centro commerciale, dire sempre e solo si è l’unico modo per poter sopravvivere.
Dire sempre e solo sì ai turni dell’ultimo minuto; dire sempre e solo sì ai compiti al di fuori del proprio ruolo, ma senza ottenere mai un riconoscimento; dire sempre e solo sì alle domeniche lavorative (forse ne ho libere in tutto 6 all’anno, di cui 4 di ferie); dire sempre e solo sì alle festività passate sul luogo di lavoro, quelle rosse di calendario e quasi mai pagate come tali.
I turni, con alta percentuale serali, mi costringono a tornare a casa e trovare i bambini che dormono già, un marito stremato, forse anche un po’ arrabbiato. Certamente ho più tempo libero la mattina, tempo che spendo per sistemare, andare alla posta, a fare la spesa e magari se sono fortunata riesco a fare una chiacchiera frugale con un’amica.
Quasi mai riesco ad incastrare i tempi con il lavoro per godermi l’uscita dei miei figli da scuola, quasi mai una gita domenicale, mai una gita durante le feste. Il tutto per 700 euro al mese. Quello che mi pesa di più è avere sempre meno ricordi, meno sorrisi, meno abbracci. Sento parlare spesso di come la società abbia perduto i valori fondamentali della famiglia. Credo fortemente dipenda anche dalla mancanza di tempo da poter dedicare agli affetti, alle tradizioni. Ormai è pura utopia parlare delle cose della vita intorno alla tavola imbandita.
Poi arriva un sorriso improvviso di uno dei miei figli, e per qualche istante non penso più alla promessa non mantenuta…
Tanti auguri di buon Natale
Simona

Che dire, la fotografia perfetta di una vita precaria… Buon Natale anche a te Simona, di cuore!

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