Nulla accade per caso, Jung li definiva eventi sincronistici: fenomeni in grado di cambiare il nostro modo di vedere il mondo, l’immagine che abbiamo di noi stessi, di aprirci nuove prospettive. Insomma, quei segnali disseminati ad arte sul nostro percorso quotidiano per comunicare qualcosa che riguarda solo noi stessi e il nostro colloquio interiore.
Oggi è il primo giugno, il giorno del primo anniversario delle proteste di Gezi Park, a Istanbul. Oggi è il primo giugno, il giorno del mio compleanno. Una data, due eventi diversi per importanza (ovviamente del mio compleanno non interessa a nessuno fatta eccezione per miei cari), due eventi che però per me rappresentano una coincidenza significativa, si intrecciano con il centro commerciale: mio luogo quotidiano di rivendicazione sindacale e simbolo della protesta per il popolo turco.
Oggi è il primo giugno, Erdogan, aveva annunciato il pugno duro contro i manifestanti e, aimè, è stato di parola. Questo primo anniversario è segnato da scontri, decine di feriti e oltre 100 arresti. Insomma, il solito copione del potere governativo che mostra i muscoli attraverso l’uso di manganelli, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua.
Ma torniamo al centro commerciale della discordia, la cui costruzione fu in grado di catalizzare i motivi di protesta di un intero popolo … Sarà stato un caso?
L’inizio della protesta, che si scatenò in tutto il paese, fu l’albero (il caso delle 500 piante del parco Gezi, polmone verde della megalopoli sul Bosforo). Poi fu la birra (si è propagata in tutta la nazione contro il divieto sugli alcolici). Ma in fondo il nocciolo della questione, l’essenza della protesta delle donne e degli uomini turchi è la libertà. Colpisce che l’epiCENTRO della protesta fu COMMERCIALE.
Lo scorso anno oltre 10.000 persone si sono ritrovate nel parco Gezi di piazza Taksim (che il governo voleva distruggere), per gridare Yeterli: basta. Una protesta contro il liberismo sfrenato e un’idea distorta di progresso. La costruzione di un centro commerciale nell’ultimo polmone verde della città ha causato l’esplosione del più grande movimento di disobbedienza civile mai visto in Turchia, malgrado l’uso massiccio di gas lacrimogeni, idranti e manganelli fatto dalla polizia.
Lo scorso anno l’ingranaggio liberista distorto e malato si è inceppato, uomini e donne di tutte le età si sono ritrovatati in questo parco con i sui pioppi settantenni per gridare, ballare, riappropriarsi dello spazio pubblico di una città che nel giro di dieci anni è divenuta la vetrina di troppe multinazionali. Sogni, progetti, vita, musica, striscioni, slogan, occhi di giovani e di anziani che si legano indissolubilmente alla storia di una Turchia così complessa, nostalgica e forte. Gli abitanti si sono riversati in piazza con tutta la loro indignazione per esercitare il diritto a riprendersi la città, per chiedere in modo legittimo di ripensare e cambiare questo spazio urbano sociale.
Il governo dell’AKP, ha accelerato la nuova progettazione di Istanbul, una delle città più grandi del mondo, in conformità alla sua agenda neoliberale ambiziosa e implacabile. Il governo ha quindi cominciato a realizzare enormi progetti, trasformando luoghi pubblici urbani che i cittadini comuni usano molto frequentemente, in lotti di terra dove dovranno essere costruiti hotel lussuosi, abitazioni, centri commerciali.
La politica di Istanbul è la stessa di tutti i governi capitalisti e punta a ridisegnare i costumi sociali, le condizioni di lavoro e la struttura architettonica della nostre città in funzione ed al servizio del capitale. Le nostre piazze sono via via sostituite dai centri commerciali, nuovo modello di moderna piazza priva di qualsiasi scambio umano che non sia mediato dal denaro. Autentici non luoghi dove i soggetti sociali si incontrano senza interagire, dove ogni cittadino può ingannevolmente sentirsi, ricco, consumatore ma dove in realtà è prigioniero inconsapevole. Microcosmi dove campeggiano i nuovi schiavi del lavoro e del consumo. Nelle nostre città abbiamo centinaia di giganteschi centri commerciali, spesso questi Business Park sono frutti avvelenati di compensazioni edilizie in cui vengono previsti centinaia di migliaia di metri cubi destinati alla costruzione di ristoranti, bar, negozi e case private.
Il capitale drena il territorio delle nostre città su scala mondiale facendo profitti, ma in cambio non rende alcun valore aggiunto in termini di abitare e di occupazione. Nei processi disgregativi messi in atto dal capitale il settore del commercio è all’avanguardia, in un centro commerciare ci sono circa 2000 lavoratori che vedono applicati centinaia di contratti diversi, retribuzioni diverse, diritti diversi, ma che in realtà svolgono più o meno le stesse mansioni. Una grande fabbrica parcellizzata dove la repressione del dissenso sindacale ricalca quella del secolo scorso nelle fabbriche classiche; ha la stessa natura violenta ma dispone di tecnologie di controllo evolute, rendendo difficile organizzare il malessere dei lavoratori.
Dietro questo proliferare di ecomostri commerciali si nasconde spesso l’attività speculativa di grandi gruppi finanziari e la presunta infiltrazione del potere mafioso. In Italia la Corte dei Conti ha pubblicato, qualche anno fa, una relazione dedicata alla criminalità organizzata che non ha avuto la dovuta rilevanza sui giornali e alla televisione. Tale relazione rileva che centri commerciali e costruzioni edilizie sono le nuove frontiere delle mafie. Infatti, le attività economiche in cui la criminalità organizzata investe con maggior frequenza sono quelle “edilizie, immobiliari, commerciali e la grande distribuzione”. Il commercio, in particolare il franchising che coinvolge le grandi marche, consente alle organizzazioni criminali di procedere all’apertura di esercizi commerciali spesso a nome di soggetti terzi compiacenti non immediatamente riconducibili ad esponenti della criminalità. In questo modo, le mafie riescono a controllare l’intero processo che va dalla costruzione delle strutture al loro sfruttamento con la vendita dei beni, permettendo il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite. L’infiltrazione della criminalità organizzata nell’attività edilizia e commerciale è favorita anche da una scorretta progettazione urbanistica che si fonda su un modello di sviluppo incontrollato. Il prodotto finale di questo genere di progettazione sono le tante “piazza Taksim” presenti nelle nostre città, ovvero cemento che sostituisce spazi verdi.
Non di secondo piano è il problema del reddito: le grandi centrali di acquisto che riforniscono le catene della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) dovrebbero fungere da strumento di razionalizzazione e programmazione delle forniture, in realtà sono un vero e proprio cartello dei prezzi che scarica i suoi effetti sul salario e sulle condizioni di lavoro (in tutto il ciclo: dalla produzione, al trasporto fino alla distribuzione) e sui prezzi al consumo. A conferma di ciò, in Italia, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deciso di volerci vedere più chiaro sulla dinamica di formazione dei prezzi come sui rapporti e le condizioni contrattuali praticate dalle centrali di acquisto nei confronti delle imprese che forniscono i prodotti. Il risultato di questa filiera agroalimentare, dominata dalla GDO, è un prezzo di acquisto al consumo portato alle stelle, con ripercussioni sui cittadini che pagano l’ennesimo inaccettabile prezzo della crisi.
Non mi coglie di sorpresa che la difesa di un parco contro la speculazione commerciale si sia trasformata in resistenza. Nelle piazze vecchie e nuove si incontra la Polis e nell’antica Grecia la piazza – Agorà – era il luogo simbolo della democrazia del paese, dove si riuniva l’assemblea per discutere e prendere le decisioni politiche. Il popolo Turco ha rinchiuso l’individualismo in nome di una solidarietà pronta a resistere, per decidere come vuole e se vuole il progresso.
Il seme è germogliato e le donne e gli uomini turchi stanno provando a riscrivere la loro storia.