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Social media: l’opposizione ai mainstream

E’ importante iniziare con una premessa per non incorrere in fraintendimenti: sono fermamente convinto che i social media non possano essere sostitutivi dell’agire sindacale, credo però che possano contribuire allo stesso come ottimo strumento capace di alimentare e coagulare la voglia di attivazione di tanti lavoratori, soprattutto giovani, che ormai utilizzano come strumento principale d’informazione e di socialità le risorse disponibili in rete.

La recente storia ce lo dimostra: soggettività individuali o organizzate, in un contesto favorevole, hanno mobilitato grandi masse di persone (in Egitto in Piazza Tahrir, in Spagna e negli Stati Uniti con gli Indignados e Occupy Wall Street), rendendo strategico per le connessioni il ruolo dei social media.

L’altro ruolo fondamentale, in ottica sindacale, che i social network possono svolgere è quello di opposizione ai mainstream. I canali di informazione classica, che spesso si ritrovano riveduti e corretti anche in rete, sono il braccio neoliberista a larghissime intese che gestisce la realtà tramite l’istituzione di un vero e proprio regime di informazione. Dobbiamo quindi imparare a contro-utilizzare la rete come veicolo dei nostri contenuti, per riuscire a mettere in crisi le controparti.

A qualcuno lo scorso anno è riuscito nel comparto del commercio e dei sevizi, guarda caso uno dei settori più avanzati in termini di sfruttamento. I lavoratori hanno prodotto, attraverso la rete, un vero e proprio effetto boomerang degli spot della ex testimonial Coop Luciana Littizzetto e dello spot McDonald’s diretto dal regista premio Oscar Gabriele Salvatores. Insomma, l’azienda leader della grande distribuzione organizzata in Italia e la multinazionale del panino a basso costo sono state vittime degli effetti delle loro recenti campagne pubblicitarie.

Le numerose testimonianze raccolte nella mia analisi del settore, tra l’altro a prevalente occupazione femminile, sono il sintomo più evidente che i lavoratori sono stremati e stanno portando alla luce le condizioni di precarietà di chi si guadagna da vivere nei centri commerciali, laboratori di sperimentazione di nuove forme di sfruttamento e di alienazione nei confronti dei lavoratori che vengono indotti a considerare l’azienda come una famiglia, dove la flessibilità è un elemento imprescindibile: straordinari, festivi obbligatori, orari che cambiano ogni giorno, ferie non concordate sono la normalità e rendono inconciliabili i tempi di vita e di cura della famiglia con il lavoro. A questo si aggiunge tutta una serie di meccanismi disciplinari e di abusi, come il mobbing, che minano qualsiasi forma di tutela.

Illuminante in tal senso è l’agile libro “L’azienda totale”, edito da Sensibili alla foglie, che cerca di mettere a fuoco i dispositivi relazionali entro cui si formano i lavoratori – postmoderni e flessibili – delle grandi catene di supermercati. L’analisi delle dinamiche identitarie che si svolgono in queste aziende emergono dalle testimonianze dirette di diversi lavoratori che hanno partecipato ad un cantiere di ricerca il cui scopo era di tratteggiare i modi di funzionamento di un’immaginaria azienda totale ed i tentativi di resistenza che le soggettività in questione mettono in atto per rispondere alla spinta disumanizzante cui sono sottoposte.

In questo difficile contesto i lavoratori hanno reagito mostrando la polvere che si cela sotto il tappeto della loro cattiva occupazione e questo anche attraverso la comunicazione orizzontale offerta dai social network e dal loro effetto moltiplicatore, riuscendo addirittura a contrastare i canali pubblicitari classici di cui si servono le multinazionali. Il caso della lettera aperta che sindacaliste e lavoratrici hanno indirizzato a Luciana Littizzetto (la testimonial nazionale di Coop), che ha scatenato un pandemonio mediatico approdato negli studi di La7, e della pubblicità della McDonald’s che ha irritato non poco i sindacati di categoria ed i lavoratori che già da tempo si sfogavano in rete, ne sono un chiaro ed inequivocabile segnale.

Non è stata certo colpa delle agenzie pubblicitarie che non hanno saputo confezionare un prodotto adeguato, ma merito dei lavoratori che hanno trovato il cavallo di Troia per penetrare le contraddizioni di questi colossi commerciali. Dietro le promesse ad effetto di creare posti di lavoro o di mostrare un luogo di lavoro come “un mondo accattivante e un ambiente simpatico”, si celano numerose incoerenze.

I posti di lavoro sono spesso precari, con contratti a tempo determinato e spesso part-time e non possono certo rappresentare un’opportunità in grado di soddisfare le esigenze di stabilità di un individuo o, meno che mai, di una famiglia; soprattutto se si fanno i conti con l’occupazione persa a causa della chiusura di centinaia di piccole e medie attività ogni anno, incapaci di reggere la concorrenza.

L’omologazione dell’organizzazione del lavoro messa in atto dalle multinazionali del settore, pur se con linguaggi diversi a seconda della nazionalità dell’azienda, ha la stessa filosofia organizzativa che tende a comprimere verso il basso i salari ed i diritti dei lavoratori, finanche quello di far pipì. Il sussulto, ancora in ordine sparso, dei lavoratori di queste nuove fabbriche metropolitane assomiglia ad una embrionale presa di coscienza operaia.

Compito del sindacato è quello di organizzare questo malessere e questa voglia di migliorare la propria condizione lavorativa, compito difficile in un settore così parcellizzato. L’utilizzo dei social network può essere un’opportunità. Uno strumento da non sottovalutare, da comprendere, studiare e valorizzare, che non può però prescindere dall’organizzazione e dalla lotta.

About Francesco Iacovone

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