Questa è la storia di Valeria Maiolino. Una commessa 40enne dell’Ipercoop Euroma2, mamma di 2 splendidi bambini. Una commessa colpita dalla sclerosi multipla, che ha trovato nei suoi colleghi e nella sua azienda – ma soprattutto in se stessa e nella sua famiglia – il sostegno che la fa andare avanti da 10 anni con forza e coraggio da leonessa.
Firmare quel contratto “fisso” fu allentare un cappio troppo stretto al collo.
Dopo 2 anni da precaria, circa 12 anni fa, firmai il mio primo contratto a tempo indeterminato con la Coop. Fu un grande sospiro di sollievo, ricordo. Uno di quei respiri talmente profondi, da togliere il fiato.
Quei due anni erano stati stressanti per tutte noi precari; due anni sotto un regime di semi dittatura: con acqua bevuta di nascosto, con chiusure indicibili, sempre a stomaco vuoto. Continue richieste di straordinari e ferie non previste e chi più ne ha più ne metta.
Firmare quel contratto “fisso” fu allentare un cappio troppo stretto al collo. Fu riappropriarsi di sicurezze negate. Fu riprendere aria. Aria fresca. Cominciai ad allontanare le pressioni, a sentirmi più felice e sicura. Ma fu proprio allora che cominciai a sbagliare. Cominciai a sbagliare qualunque cosa:
- Spedivo, in banca, il cartaceo invece dei soldi;
- I terminali del salvatempo mi cadevano dalle mani;
- Contavo e ricontavo un fondo cassa che non mi tornava mai;
- Mi dimenticavo la password per aprirmi il turno.
Io mi sentivo normale, ma tutti cominciarono a lamentarsi. Le ragazze del punto d’ascolto mi sostituivano quando riponevo i terminali nelle “culle”, dicendomi che ci avrebbero pensato loro, che ero troppo lenta. Quelle di cassa centrale mi convocarono, a porte chiuse, chiedendomi spiegazioni su un problema di cui io nemmeno mi accorgevo. Mi dicevano che, forse, mi ero troppo rilassata firmando il contratto a tempo indeterminato e che la mia concentrazione fosse diminuita, troppo. In quell’ufficio scoppiai a piangere. Perché io ero sempre io, non mi sentivo né più lenta, né più distratta. Mi chiesero se avessi problemi familiari ma, io, NON AVEVO NULLA, perché io mi sentivo bene. Eppure facevo tutto male.
In realtà, una cosa che mi faceva un po’ male c’era: un dente. Qualche giorno dopo il “richiamo” di cassa centrale, fu proprio al dente (e alle conseguenti cure dentistiche), a cui io attribuì i miei strani fastidi. Tornai dal dentista e gli elencati le mie parti addormentate, solo per metà … Metà lingua, metà labbro, metà naso. Così, mi fece un’ortopanoramica. E poi mi disse: “Ah, e dorme anche metà palato”. Fu allora che il mio dentista sbiancò. Cambiò espressione del volto. Chiamai subito un mio collega, spiegando l’imprevisto. Mi “sciolse’ i turni già usciti di tutta la settimana, sostituendoli con le ferie. Il dentista chiuse la schermata dell’ortopanoramica che appariva sul PC e mi invitò ad andare da un neurologo. Mi disse di non preoccuparmi, che sarebbe andato tutto bene.
La diagnosi di sclerosi multipla arrivò dopo poche settimane, in seguito a un dolorosissimo prelievo del liquor dalla colonna vertebrale. La risonanza magnetica, con contrasto, rivelò due lesioni accese nel cervello e tante altre spente, nel cervelletto e nel midollo. A casa mia cominciarono a guardarmi con dolore, così tornai subito al lavoro, per sentirmi normale. Ma la malattia ormai si era svegliata. Avevo perso la sensibilità, dal seno in giù. Sulle mani avevo dei “guanti perenni” e delle fastidiose scosse elettriche che partivano dalla punta dell’alluce fino ad esplodere nella testa.
La mia prima cura, poi, fu anche peggio della malattia.
Dovevo bucarmi, da sola, (che poi lo faceva mio marito perché io non avevo coraggio) sotto pelle, a giorni alterni: pancia, spalle e natiche, con l’interferone. La medicina, sotto la pelle, provocava dei gonfiori rossi che pulsavano, anche solo a soffiarci e, per un anno e mezzo di fila, ho avuto la febbre tutti i giorni. Una febbre talmente costante, alla quale mi ero pure abituata, con la quale andavo al lavoro tutti i giorni e con la quale gestivo la mia famiglia. Per questo anno e mezzo, ho avuto (ogni notte), tremori che mio marito sopperiva con coperte e piumoni, anche in pieno agosto.
In questo anno e mezzo non mi sono mai assentata un giorno… E qui comincia la storia vera, quella che voglio raccontare.
Quella storia che comincia quando, al lavoro, capiscono che non sono solo distratta o troppo rilassata. O sciocca o impacciata. Ma che sono solo malata. La mia storia racconta di sorrisi, fatti solo per incoraggiarmi. Di spalle su cui appoggiarmi per scendere i gradini. Di mani che portavano “il cassetto” al mio posto. Di pochette tirate da cassa in cassa e di persone che, a fine turno, contavano il cassetto al posto mio. La mia storia racconta di “no’ mai detti e di una famiglia, quella della barriera casse, che mi ha aiutato e sorretto.
Facevo orari normali, quelli che capitavano, ma non appena avessi richieste particolari, i turni mi venivano cambiati, anche dalla notte al giorno. Poi, data l’inefficacia dell’interferone e del progredire della malattia, il neurologo optò per un farmaco di seconda linea, “il Tysabry”. Infusioni mensili. Pur con l’ombra minacciosa della PML ( infezione celebrale acuta, tipo meningite, che è un effetto collaterale del mio nuovo farmaco), io riacquistai la mia vita e la sensibilità alle mani.
Al lavoro non ebbi più bisogno di nulla.
Ma, dopo 5 anni dalla diagnosi, nacque Angelica, mia madre era morta e io chiesi un’aspettativa (non retribuita) per accudire la bimba. Mi rifiutarono l’aspettativa, 2 giorni prima del rientro alla Coop. Fu il collega, quello di prima, a darmi la brutta notizia. Non sapevo cosa fare. A chi l’avrei lasciata? Il collega mi tranquillizzò e mi propose di andare subito a cercare un nido, anche privato, e che, in base agli orari di quel nido avrebbe fatto uscire i miei turni. Un’umanità, questa, senza eguali. E così fu : 9.00/ 14.00.
Ma al nido si sa che è tutto un malanno. Così proposi al collega di concentrare le mie 20 ore lavorative, tra il venerdì e la domenica, per poter accudire la piccola (qualora fosse di nuovo “invirusata”), ma nello stesso tempo avrei garantito la mia presenza in cassa, senza tradire la fiducia di nessuno.
Sono andata avanti così, finché ho potuto. Poi, vuoi lo stress, vuoi le cure sospese per un mese dopo il parto (per poterla allattare almeno un pochino), mi sono sentita male. La risonanza ha rivelato la nuova infiammazione di vecchie placche e la stanchezza è divenuta parte integrante della mie giornate. Una stanchezza “diversa” che non ha mai potuto aspettare niente e nessuno. Una stanchezza che, mista a paura, mi ha spinto, per la prima volta, a chiedere favori seri sui turni. Favori su favori, che non mi sono mai stati negati ma che, come un boomerang, mi facevano sentire in colpa, inadeguata e di nuovo malata.
Questo meno di un anno fa, quando ho deciso che mi serviva aiuto e ho contatto un sindacato: i Cobas.
Io sono grata all’azienda che, in 10 anni di malattia, mi ha sempre sostenuta ed aiutata. Ma, avevo bisogno di un altro sant’uomo (dopo il collega di cui sopra), che portasse la mia voce dove meritava di essere sentita, per ottenere degli orari che facilitassero le mie fatiche e che allo stesso tempo non mi facessero sentire in colpa, settimana dopo settimana, favore dopo favore. Incontrai Francesco Iacovone e, lui, lottò per me.
Io sono una donna fortunata perché sono stata sempre sostenuta, incoraggiata e aiuta.
Ma questa è solo la mia storia e finché leggerò di malati licenziati per una diagnosi, la mia storia non sarà mai una Vittoria, ma resterà solo la mia storia.
Se, poche settimane dopo la diagnosi di sclerosi multipla, a 30 anni, fossi anche stata licenziata, non avrei mai posseduto quel mix fatto di sorrisi, ottimismo e fiducia nel prossimo, che hanno contribuito a contrastare la malattia. Questa è la mia storia, ma non una Vittoria, finché leggero’ di storie come quella di Fabio. Perché accade, ovunque e troppo spesso, che un’azienda sia più infame di una malattia degenerativa.